Cronaca

Petrolmafie a Vibo, l’origine dell’inchiesta: “I Mancuso interessati al petrolio”

Un capitano del Ros ascoltato in aula: i lavori pubblici a Piscopio e non solo, il ruolo dei fratelli D'Amico, il pranzo con Luigi Mancuso e l'idea di un deposito di carburanti a Vibo Marina

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L’inchiesta Petrolmafie è “un’attività investigativa che ha trovato la sua genesi nell’indagine madre Rinascita Scott“. Concretamente tutto è partito quando “da gennaio 2018 il Ros di Catanzaro ha intrapreso un monitoraggio dell’indagato Pietro Giamborino che ora è imputato in Rinascita (ma non in Petrolmafie, ndr). Questo monitoraggio nasceva in parte da risultanze investigative, in parte da quanto detto da alcuni collaboratori di giustizia, come Raffaele Moscato e Andrea Mantella, che avevano inquadrato Pietro Giamborino quale soggetto di lungo corso della politica calabrese (ex consigliere regionale della Calabria, ndr) che aveva sostanzialmente nutrito, fertilizzato, il proprio percorso politico, grazie al rapporto che aveva intrattenuto con appartenenti alle cosche di ‘ndrangheta di Vibo Valentia“, secondo quanto emerso dalle indagini ma non ancora accertato nel corso del procedimento giudiziario. A raccontare l’inizio dell’indagine “Petrolmafie“, denominata anche “Rinascita 2” in quanto considerata una costola della storica maxi operazione contro i clan del Vibonese, è un capitano del reparto Anticrimine del Ros di Catanzaro ascoltato ieri proprio nel processo “Petrolmafie” in corso nell’aula bunker di Vibo Valentia.

“Favoreggiamento delle imprese gradite alle cosche”

Rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Andrea Mancuso, il capitano del Raggruppamento operativo speciale (Ros) ha spiegato che l’assunto di partenza delle indagini era che “una delle contropartite del rapporto, garantite da Giamborino, fosse il favoreggiamento politico e amministrativo di alcune aziende gradite alle cosche“. Tra queste imprese “uno dei nomi degli imprenditori menzionati dai collaboratori era D’Amico, facendo riferimento ai fratelli Antonio e Giuseppe”. In questo scenario “nel gennaio 2018 inizia il monitoraggio di Pietro Giamborino che consentì di ottenere alcuni riscontri – secondo quanto ha riferito il militare – in merito al fatto che le aziende dei fratelli D’Amico fossero in qualche modo destinatarie dell’attenzione del Giamborino e di alcuni soggetti appartenenti alle cosche di ‘ndrangheta del Vibonese“. Affermazioni che sono al momento delle mere ipotesi investigative, che dovranno essere confermate nel processo, che – ha spiegato il capitano del Ros – avevano dei primi elementi di indagine che “vertevano sostanzialmente su due vicende”.

I lavori a Piscopio

La prima riguarda dei lavori pubblici per la mitigazione del rischio di frana della zona Nord di Piscopio, frazione di Vibo Valentia, che “erano stati appaltati a una società siciliana ma di fatto – secondo gli investigatori – materialmente eseguiti dall’impresa dei fratelli D’Amico”. La questione “viene commentata da Pietro Giamborino, insieme al nipote, alla presenza di Salvatore Giuseppe Galati alias ‘Pino il ragioniere’ (non imputato in Petrolmafie, ndr) poi arrestato nell’ambito dell’operazione Rimpiazzo. In questo episodio i tre venivano monitorati a commentare la condotta di un soggetto, che fu ricostruito essere Giuseppe D’Amico, in ordine al quale sostanzialmente Giamborino e il nipote raccoglievano la lamentela di Galati che lo dipingeva come un soggetto che quasi per ingratitudine stava mancando nel ricambiare l’atteggiamento che c’era stato nei suoi confronti, chiaramente un atteggiamento di favore. In quell’occasione Giamborino e il nipote davano la propria disponibilità a mantenere informato il Galati sull’andamento dei lavori”.

La richiesta di intermediazione per un ricorso al Tar

La seconda circostanza “vedeva Giamborino interpellato da un imprenditore siciliano il quale voleva che lo stesso si interessasse del buon esito di un ricorso al Tar Calabria avanzato dalla sua società. Questo ricorso era relativo all’aggiudicazione di lavori di messa in sicurezza del versante Affaccio, Cancello rosso, Piscopio, Triparni, Longobardi, e non solo“. Anche questa è al momento solo una tesi investigativa e il capitano del Ros non ha parlato di un effettivo intervento da parte dell’ex consigliere regionale. Dall’attività nel suo complesso in ogni caso, secondo quanto ha riferito in aula il militare, “emergeva che l’azienda aveva fatto ricorso al Tar e aveva chiesto l’intervento di Giamborino affinché tramite le proprie aderenze politiche e amministrative agevolasse il buon esito di questo ricorso. L’attività tecnica ha consentito di appurare che, qualora fosse stata aggiudicata, anche in questo caso la materiale esecuzione dell’opera sarebbe stata subappaltata o comunque commissionata all’impresa dei D’Amico“.

Il perchè del nome “Petrolmafie”

“Questo è stato lo scenario – spiega ancora il capitano del Ros – da cui si è valutata l’opportunità investigativa di approfondire la situazione dei D’Amico”. Nel corso delle indagini poi, ed è da questo che prende il nome “Petrolmafie“, “abbiamo monitorato un’eccezionale attività soprattutto nell’ambito del commercio dei prodotti petroliferi. L’attività era contraddistinta dalla contestuale esecuzione, al di là del progetto imprenditoriale, di svariate dinamiche fraudolente che gli imprenditori monitorati ponevano in essere avvalendosi della schermatura di un numero impressionante di persone giuridiche, di imprese giuridiche create ad hoc”. Proprio in questo ambito “emergeva l’interesse, curato dai fratelli D’Amico, della cosca Mancuso di Limbadi. Cosca con la quale i fratelli D’Amico – anche in questo caso secondo le risultanze investigative che dovranno eventualmente essere confermate nel processo – hanno evidenziato un rapporto privilegiato e anche di conoscenza personale, soprattutto tra Giuseppe D’Amico e Luigi Mancuso“.

Il pranzo alla presenza di Luigi Mancuso

Uno di questi progetti imprenditoriali presupponeva un rapporto con una società petrolifera rumena. “Attraverso un’interlocuzione con dei broker avvenuta tramite l’intermediazione di Silvana Mancuso e Antonio Prenesti – racconta ancora in aula il militare – i fratelli D’Amico riescono a entrare in contatto con gli agenti di commercio di questa società rumena. Nel gennaio 2019 venne quindi organizzato un pranzo a Vibo Valentia. In quella occasione si ebbe la manifestazione dell’interesse della cosca Mancuso nella trattativa che si stava conducendo perché a quel pranzo parteciparono anche Luigi Mancuso e Pasquale Gallone. La finalità della trattativa era duplice: in primo luogo importare grossi quantitativi all’ingrosso di prodotti petroliferi in Italia, bypassando gli accordi di sostanziale monopolio che con gli esportatori di quei Paesi avevano i grandi produttori italiani, soprattutto Eni, tramite una società che sarebbe stata creata appositamente”.

Realizzazione di un deposito costiero a Vibo Marina

Ma non solo: “A questa progettualità si affiancava l’idea della realizzazione di un deposito fiscale di carburanti, costiero, a largo di Vibo Marina. Un progetto – sottolinea il capitano del Ros – che doveva essere servente al primo perché doveva essere di stoccaggio per i quantitativi di prodotti petroliferi che sarebbero stati importati. Progettualità che di fatto prima si rallenterà per un’oggettiva disparità di dimensione tra i due interlocutori: i delegati della società rumena, avendo modo di vedere la dimensione dell’azienda dei D’Amico, avanzeranno qualche perplessità sull’oggettiva possibilità degli stessi di portare avanti il progetto. E poi si è arenata completamente nell’aprile del 2019 quando ci fu l’arresto di Antonio Prenesti in un’altra indagine. Prenestì era in quotidiano contatto con i broker milanesi – conclude il militare – che si sono messi in allarme e sono stati indotti ad allentare i rapporti con la compagine calabrese“.

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