Cronaca

Rinascita, Emanuele Mancuso tra avvocati “collusi”, indagini insabbiate e massoneria

“C'erano avvocati che venivano a casa, si fermavano al cancello, illustravano la questione legale e se ne andavano. Altri mangiavano a casa nostra e andavano in barca con la mia famiglia"

rinascita scott

“Per correttezza devo dire che ci sono avvocati che mantenevano una linea di demarcazione, ma ce n’erano altri che si comportavano come se avessero lo studio a casa mia”. In questo caso non fa dei nomi, ma il pentito Emanuele Mancuso continua a parlare all’interno del maxi processo Rinascita Scott, collegato con l’aula bunker di Lamezia Terme da un sito riservato. “C’erano avvocati che venivano a casa mia e si fermavano al cancello, si limitavano a salutare, a dire la questione legale e se ne andavano, alcuni non venivano neanche a casa ma mi facevano andare nel loro studio. Altri invece – continua il pentito – mangiavano a casa nostra, andavano anche in barca con la mia famiglia perché lì è più difficile essere intercettati”. Una differenza sostanziale tra avvocati che fanno semplicemente il loro mestiere e altri che, invece, avevano un rapporto più “intimo” con la potente cosca di Limbadi

I falsi certificati medici: “Una cosa pazzesca”.
Nel corso dell’interrogatorio di oggi, condotto dal pm Antonio De Bernardo, il pentito ha raccontato anche di alcuni certificati medici fasulli che sarebbero stati concordati proprio da un avvocato. Era il 2007 e Emanuele Mancuso era stato arrestato e portato nel carcere di Vibo. Lì “vengono due agenti mi dicono ‘tu qui devi stare a posto, tranquillo’” (aveva parlato anche in un’altra udienza di agenti del carcere di Vibo alle dipendenze della cosca Mancuso). In quell’occasione “ricordo che mio padre, insieme all’avvocato Stilo, avevano concordato dei certificati medici fasulli fatti da soggetti intranei alla cosca”. Si trattava, ha dichiarato il pentito, del dottor Pietro D’ambrosio e della moglie Palmitesta, da cui avrebbe ottenuto un certificato di incompatibilità con il regime carcerario: “A 20 anni, una cosa pazzesca”. “Lo stesso avvocato Stilo mi disse ‘fai finta che stai male’ – continua il collaboratore di giustizia – ma io non sapevo neanche che parte dovevo recitare”. Tant’è che alla fine il magistrato “non valutò nemmeno la richiesta, ma ci mancherebbe altro”.

L’indagine insabbiata.
Sempre riguardo l’avvocato Stilo, il pentito ha raccontato di quando “si presentò a casa mia con un fascicolo, nel 2008 se non sbaglio, che riguardava un’indagine ‘Emanuele Mancuso più altri’ con l’accusa di 416 bis (associazione mafiosa, ndr)”. Non una cosa da poco: “A 20 anni vedere una cosa del genere non fa ridere, è una cosa pesante”. Nel fascicolo di circa 400 pagine, spiega, “c’erano decreti di autorizzazione alle intercettazioni, le stesse intercettazioni (che a mio avviso erano pesantissime) ad Antonio, Domenico e Roberto Piccolo in cui si parlava sia di stupefacenti che di ambasciate al panificio di mia zia”. “Fui avvertito dall’avvocato di starmi attento perché altrimenti mi avrebbero arrestato, non credo l’abbia fatto per me ma per mio padre e per il legame che c’era con la mia famiglia”. L’indagine era della Polizia di Vibo e della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro. “L’avvocato non aveva nessun titolo per dirmi che ero indagato” precisa Emanuele Mancuso, aggiungendo: “Ritengo che l’indagine sia stata insabbiata da mio padre, perché non c’è stato un prosieguo”.

Il ruolo della massoneria: “Decidevano chi far arrestare”.
Lo stesso avvocato Stilo “voleva coinvolgere mio padre, non solo a livello economico ma anche come consorterie criminali, quando imprenditori stranieri dovevano fare degli investimenti”. Il padre, Pantaleone Mancuso dello “l’ingegnere”, “lo invitò ad andare da quelli che io definisco i massoni della famiglia”. Ed è in un altro passaggio che spiega i potenti legami con la massoneria: “Ogni volta che c’era una qualche misura patrimoniale, un arresto, o comunque un diverbio – spiega il pentito – capitava che si alzassero i toni”. E in un’occasione particolare, prima dell’operazione Dinasty, “nei commenti nei confronti degli undici fratelli – non di Luigi Mancuso di cui si è sempre parlato come fosse un dio assoluto – di Antonio Mancuso classe ’38, Pantalone Mancuso detto ‘Vetrinetta‘ e Giovanni Mancuso” se ne parlò “come persone che comandavano anche la Polizia”, addirittura “decidevano chi far arrestare e chi no”. Com’era possibile? “Dicevano che avevano legami con magistrati, imprenditori, i soggetti della casta insomma, ed erano legami massonici“.

Pittelli e il giudice “amico”.
Nel corso dell’esame c’è stata anche l’occasione di parlare di uno degli imputati “eccellenti” del maxi processo, l’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, che lo difese dopo una rapina alla Crai fatta quando era ancora minorenne. “Devo però precisare che non è stato nominato dalla famiglia Mancuso, è stato ‘Pinuccio’ Barba a consigliarlo perché era l’unico modo per farmi uscire”. Tanto che poi, in appello, si rivolse ad altri legali e “i rapporti con Pittelli sono finiti”. In ogni caso, precisa, “presi 4 anni e 3 mesi, e dopo 3 mesi mi mandarono agli arresti domiciliari: Pittelli, con cui io non ho mai parlato ma me l’ha riferito mia madre, sapeva quanto avrei preso già un mese prima della sentenza e che poco dopo sarei uscito”. Come faceva a saperlo? “Perché Pittelli era amico del giudice Blasco”.

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