Cronaca

Rinascita, Emanuele Mancuso racconta il pentimento: “Se scegli Nicolino (Gratteri) ti rinneghiamo”

Dagli insulti alle "vigliaccate contro una bambina di un anno e mezzo". Passando per i riti satanici e non solo: "Ho passato momenti bruttissimi"

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La collaborazione con la giustizia di Emanuele Mancuso – 33 anni, figlio del boss Pantaleone Mancuso detto “l’ingegnere” e nipote del “capo dei capi” Luigi Mancuso, primo e (per ora) unico pentito dell’omonima cosca di Limbadi – non è stato un percorso facile. Anzi. Una scelta coraggiosa, che può aiutare a infliggere un duro colpo a una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta, ma fatta di momenti difficili e di solitudine. Ha iniziato a collaborare nel giugno del 2018, pochi giorni prima della nascita della figlia, perché voleva assicurare “un futuro diverso” alla piccola e anche “per dare una svolta alla mia vita”. Per questo era pronto a fare di tutto per convincere la compagna a seguirlo nel programma di protezione. Da lei ha però ricevuto solo insulti, come quando gli disse – ha raccontato ieri nel corso del maxi processo Rinascita Scott, presente in videocollegamento da un sito riservato – “ancora non hai capito nulla, la Procura ti sta usando, sei diventato una marionetta”. O ancora: “Fin quando sei lì non mi chiamare più”, per poi riattaccare la chiamata. Per non parlare delle lettere che riceveva, tra cui una “che mi mandò mia madre”, che concludeva con “presto vedrai la vittoria del tuo signore nel tuo cuore e capirai”. Sotto la frase, sottolinea il pentito, c’era un rito satanico.

“Urla e minacce contro di me e Gratteri”.
I problemi sono iniziati subito, sin dal giorno dopo che aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Era il 19 giugno del 2018 ed era stato trasferito dal carcere di Reggio a quello di Catanzaro-Siano. Il suo trasferimento doveva essere segreto. Eppure non solo suo fratello lo sapeva, ma era anche nella cella al piano sopra di lui. Tanto che dalla finestra “ci furono urla, minacce, contro me e il procuratore Gratteri. Me ne hanno dette di tutti i colori. La voce era di mio fratello”. All’inizio non ha avvisato gli agenti di Polizia penitenziaria, ma poi gli insulti “continuavano, continuavano, non finivano mai”. Dopo quell’episodio viene quindi trasferito d’urgenza nel carcere di Paliano (nel Lazio, ndr). A quel punto, essendo un collaboratore di giustizia, sarebbe dovuto rimanere in isolamento per 180 giorni. Gli viene però concessa un’autorizzazione straordinaria per poter parlare con la compagna, affinchè entrasse anche lei nel programma di protezione e, soprattutto, perchè doveva riconoscere la bambina appena nata. La fidanzata viene però senza la piccola ma con un messaggio: “Mi ha detto che dovevo abbandonare il percorso collaborativo – ha raccontato il pentito – me ne sarei andato dalla Calabria e mi avrebbero comprato un ristorante in Spagna. Per farlo mia zia mi offriva un’ingente somma di denaro, ‘è disposta a vendersi tutti i terreni’ mi disse, quindi era una somma altissima”.

“Quando ho scelto di collaborare sono morti, avrebbero fatto di tutto”.
In aggiunta aveva dei pizzini con i nomi di due avvocati del foro di Milano: “Lo scopo era rivolgermi a loro per neutralizzare quello che avevo già detto, nonché di farmi passare per soggetto non capace più di intendere e volere”. Questo perché dal 2014 fino all’arresto, nel marzo del 2018, Emanuele Mancuso ha fatto uso di cocaina. “Era un’assunzione sporadica, 3-4 volte a settimana, a volte 2, quando mi andava insomma non una cosa quotidiana”. Con la madre e la fidanzata che per questo, nei colloqui, “mi dicevano che la Procura mi passava la roba”. Perché lo facevano? “Partiamo dal presupposto che quando ho scelto di collaborare sono morti, erano preoccupati, avrebbero fatto di tutti per farmi ricredere”. Al punto da arrivare a utilizzare una bambina appena nata. “Mia figlia è sempre stata strumentalizzata. Mi sono arrivate foto – ha aggiunto ancora – con la bambina in braccio a mio fratello, che era agli arresti domiciliari”. E – ha chiesto il pm Annamaria Frustaci – da cosa aveva capito che si trattava di una minaccia? “Mio fratello il 19 giugno nel carcere di Catanzaro-Siano mi aveva minacciato di brutto, mi aveva detto che mi rinnegava se sceglievo Nicolino (Nicola Gratteri, ndr). Dopo un mese mi ritrovo la mia bambina in braccio a mio fratello. E dietro la foto c’erano scritte in cui dicevano ‘noi siamo qua torna da noi’”.

Le “vigliaccate” contro la figlia di un anno e mezzo.
Il nipote di Luigi Mancuso che decide di collaborare con la giustizia porta quindi conseguenze, come si può immaginare, non facili da sopportare. “È stato un periodo bruttissimo perché continuavano sempre a tartassarmi su questa scelta. Hanno fatto delle vigliaccate nei confronti di una bambina di un anno e mezzo, volevano portarla in Australia”. Questo, almeno, era quello che gli avevano fatto credere visto che alcuni parenti della compagna erano australiani. “Mi è arrivata una richiesta di autorizzazione all’espatrio, era una minaccia con l’utilizzo di una bambina. Ma se tu non mi porti la bambina fino a Paliano perché il viaggio è troppo lontano, la puoi portare in Australia? È una presa in giro”.

L’incubo nella località protetta.
Gli furono poi concessi gli arresti domiciliari e fu trasferito in una località protetta – a Isernia, nel Molise – dove la situazione non migliorò per nulla. “Non conoscevo nessuno, potevo uscire solo un’ora al giorno – racconta il pentito – e solo se all’orario di uscita e di rientro chiamavo un referente. Questo referente mi aveva dato un numero fisso ma non stava sempre sul posto, non mi rispondeva mai”. Al punto che è anche capitato di restare “5 giorni senza uscire di casa, altri giorni in cui non potevo neanche mangiare”. “La casa poi non ne parliamo – ha aggiunto – stavo malissimo psicologicamente“. Era così riuscito a contattare di nascosto la compagna, per provare a convincerla a entrare nel programma testimoni (“la imploravo”), e anche la sua famiglia dove “piangevano continuamente, dicevano che avevo rovinato una famiglia“. Con la madre in particolare che insisteva e gli diceva “fai l’uomo, fatti 20 anni e statti zitto”. In cambio gli avevano promesso quattro colloqui mensili con la figlia e “di qualunque cosa avevo bisogno” ci sarebbero stati.

“Continuo ancora ad amare la mia famiglia, nonostante tutto”.
La difficoltà della situazione lo aveva così portato a cedere, a voler chiudere la collaborazione con la giustizia. “La mia compagna non si convinceva, mia figlia non me la facevano vedere in nessun modo, nella famiglia la situazione era drammatica… per vedere la bambina ero disposto ad andare in carcere”. Ha quindi chiesto ai carabinieri del programma di protezione di portarlo in carcere. Gli sembrava la scelta migliore: “Ero rimasto solo, avrei ricucito i rapporti con la mia famiglia e avrei visto la bambina”. I carabinieri, però, gli risposero che loro non potevano portarlo in carcere. “Contatto quindi mia madre per farmi venire a prendere, che sale con Antonino Maccarrone, marito di mia sorella figlia illegittima di mio padre, e mi avrebbero portato loro a Paliano”. La vicenda finì che, mentre si dirigevano verso la località protetta, “i carabinieri circondarono l’abitazione per mettermi in sicurezza perché avevano il timore che succedesse qualcosa”. “Poi durante l’interrogatorio ho ammesso di aver parlato con la mia famiglia” ma “ho continuato a collaborare, perché ho sempre voluto farlo”. Una collaborazione difficile, sofferta (ancora oggi), con tanti motivi per ripensarci. E invece continua a parlare, a dire quello che sa, anche all’interno dell’importante maxi processo Rinascita Scott. Una scelta di legalità condita, ancora, da tanta umanità anche nei confronti della sua famiglia: “Io continuo ad amare mio padre, mia madre, le mie zie, la mia famiglia – ha voluto affermare in aula – a prescindere da quello che mi hanno fatto”.

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