Cronaca

Rinascita, Emanuele Mancuso: “Nel carcere di Vibo agenti alle nostre dipendenze”

Il primo (e unico) pentito della cosca Mancuso: "Mio zio Luigi è il più carismatico, ha unito la famiglia". Dopo gli screzi "mangiavamo tutti insieme"

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“Mio zio Luigi Mancuso era il capo della famiglia, il capo assoluto. Questo non è stato mai messo in discussione da nessuno, perché è il più carismatico”. È il giorno di Emanuele Mancuso all’interno del maxi processo Rinascita Scott. 33 anni, figlio del boss Pantaleone Mancuso detto “l’ingegnere” – nonchè nipote del “capo dei capi” Luigi Mancuso – è il primo (e attualmente unico) pentito dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Limbadi. Ha iniziato a collaborare nel giugno del 2018, pochi giorni prima della nascita della figlia, perché voleva assicurare “un futuro diverso” alla piccola e anche “per dare una svolta alla mia vita e per delle vicende che riguardavano mio zio Luigi”. Lo stesso “zio Luigi” che, spiega, aveva voluto ristabilire la pace all’interno della famiglia. “Da quando è uscito dal carcere, circa nel 2012 – racconta il collaboratore di giustizia in video collegamento da un sito riservato – ha fatto in modo di unire la famiglia che prima si divideva sempre in articolazioni, si ammazzavano tra di loro, tra zio e nipote. Mio zio Luigi ha messo pace tra tutti. Tanto che siamo andati più volte a mangiare da loro e c’erano anche zio Giovanni e la moglie, che per quanto ne sapevo non andavano d’accordo con mio padre”.

“Ricorda che le parole si pagano”.
Nel corso della prima giornata di esame portata avanti dal pm Annamaria Frustaci, durato circa 7 ore, Emanuele Mancuso ha anche raccontato di quando, durante un interrogatorio di garanzia, stava rispondendo in modo tale “che ero quasi un collaboratore di giustizia”. In quell’occasione “l’avvocato Francesco Sabatino mi dava calci sulle gambe da sotto il tavolo”. Dopo l’interrogatorio il legale “è andato in un altro processo per difendere mio fratello e gli ha detto ‘vedi che tuo fratello sta parlando troppo, tappagli la bocca’”. Per questo, dice il pentito, dentro il carcere di Reggio Calabria Pino Galluccio, “andandoci un po’ pesante”, e Domenico Sdanganelli – entrambi della zona del Reggino – “mi hanno detto di stare zitto e di non parlare di mio zio Luigi”. Il nome dell’avvocato ha ovviamente fatto sollevare una levata di scudi da parte degli altri difensori presenti in aula, che hanno invitato il pm a dire al collaboratore di evitare – “anche per il futuro” – di fare nomi di avvocati, in quanto “irrilevanti per il capo di imputazione di cui si discute nel processo”. In ogni caso il racconto del pentito è andato avanti, raccontando anche di altre minacce ricevute prima ancora di collaborare con la giustizia. È infatti poi arrivata una lettera del fratello, Giuseppe Mancuso, in cui veniva minacciato e invitato a non parlare, arrivando ad affermare “spero di non incontrarti mai” e concludendo la missiva con “ricorda che le parole si pagano”. Perché tutto questo? “Era legato al fatto non solo che mi ero messo con i Soriano – ha risposto Emanuele Mancuso – ma soprattutto all’interrogatorio di garanzia”.

“Controlliamo anche il battito cardiaco di chiunque passa”.
Tra i tanti episodi descritti dal pentito, poi, uno in particolare rende l’idea del radicamento territoriale dei Mancuso nel Vibonese. “Un imprenditore di Catanzaro Lido aveva portato le giostre a Nicotera Marina, vicino alla rotonda. Ma quando entri a Limbadi o Nicotera – spiega il pentito – lo sai che noi controlliamo anche il battito cardiaco di chiunque passa”. Per questo l’imprenditore aveva portato dei biglietti, appena arrivato, a Emanuele Mancuso. Di questo però si erano lamentati, perché invece non li avevano ricevuti, “Cuturello e Campisi”. Alla fine una parte dei biglietti gli furono consegnati, ma a Giovanni Rizzo, detto “mezzo dente”, non andava giù il ruolo così rilevante di un “Mancuso così giovane”. Per questo “abbiamo litigato, visto che c’era già attrito, e l’ho massacrato di botte rompendogli il setto nasale”. Per questa ragione Antonio Mancuso, suo cugino di primo grado, “mi ha fatto andare niente di meno a Cittanova per tre giorni, da uno dei Raso, finchè non si trovava un accordo”. Che tipo di accordo? Giovanni Rizzo voleva “che venissi picchiato e chiedessi scusa”. “A dire di mio cugino però – spiega il collaboratore di giustizia – non potevo essere preso a schiaffi essendo un Mancuso”.

Il maresciallo dei carabinieri e gli agenti del carcere di Vibo.
Alla fine fu trovato un accordo, ovvero che “quando mio padre sarebbe uscito dal carcere sarebbe stato lui eventualmente, dopo aver valutato la situazione, a darmi due schiaffi“. Ci sarà, tempo dopo, un incontro chiarificatore – nel quale Emanuele Mancuso riceverà effettivamente i “due schiaffi” dal genitore – in cui era stato rinfacciato al futuro collaboratore di dire in giro che Rizzo era “un venduto dei carabinieri”. Perché lo diceva? “Perché il maresciallo Negro, piuttosto che operare come normalmente si fa nelle forze dell’ordine, si era rivolto ai Rizzo per scoprire chi aveva provocato un incendio ai danni suoi e della moglie”. Anche in un altro passaggio Emanuele Mancuso ha parlato delle forze dell’ordine, sottolineando che “nel carcere di Vibo c’erano agenti di Polizia penitenziaria alle dipendenze di mio zio, che saprei anche riconoscere”.

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