Cronaca

Rinascita Scott, la sentenza: “La ‘ndrangheta vibonese è unitaria” (NOMI)

Grande spazio viene dedicato all’esistenza della principale cosca presente a Vibo e provincia, quella dei Mancuso

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La ‘ndrangheta vibonese è unitaria. E’ quanto emerge nelle 1500 pagine che costituiscono le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’appello nell’ambito del processo scaturito dalla maxi operazione “Rinascita Scott” che lo scorso 30 ottobre ha portato alla conferma di 67 condanne.
Il verdetto d’appello ha riconosciuto l’esistenza dell’unitarietà della ‘ndrangheta suffragata da diverse sentenze e anche dalle dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia che nel corso di questi anni sono riusciti a bucare il muro di omertà sul quale regnavano i clan vibonesi. La loro attendibilità è stata ulteriormente certificata dalla Corte d’Appello di Catanzaro per la quale “l’esistenza di un sistema unitario associativo e di regole comuni e gerarchie non è in contrasto con le possibili guerre interne alle singole articolazioni, come non risulta in contrasto con l’unitarietà della ‘ndrangheta che alcuni gruppi criminali sempre qualificabili ai sensi dell’art. 416 bis c.p., presenti in alcuni territori, fatichino ad avere maggiore riconoscimento formale. Inoltre proprio il riconoscimento formale di un gruppo organizzato, da parte delle articolazioni deputate a ciò, non è indispensabile per l’esistenza del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., operando i due piani (giuridico e, per così dire, sociologico) su binari indipendenti”.

In appello 67 imputati sono stati condannati e sette assolti. Le pene più pesanti sono stati inflitte nei confronti di Pasquale Gallone, il braccio destro del boss Luigi Mancuso (condannato a 30 anni di reclusione in primo grado nel processo Petrolmafie), e Domenico Macrì, l’aspirante boss di Vibo, ritenuto il capo dell’ala militare della cosca Pardea-Ranisi, al 41 bis con 19 anni e 10 mesi da scontare. Tra le assoluzioni “eccellenti” quelle di Micele Fiorillo, detto “Zarrillo” di Piscopio e dell’impiegata del Tribunale di Vibo Carmela Cariello che in primo grado erano stati condannati rispettivamente a 5 e a 4 anni e 6 mesi.

Il ruolo dei Mancuso. Per i giudici, “l’esistenza di un sistema unitario associativo e di regole comuni e gerarchie non è in contrasto con le possibili guerre interne alle singole articolazioni, come non risulta in contrasto con l’unitarietà della ‘ndrangheta che alcuni gruppi criminali sempre qualificabili ai sensi dell’art. 416 bis c.p., presenti in alcuni territori, fatichino ad avere maggiore riconoscimento formale. Inoltre proprio il riconoscimento formale di un gruppo organizzato, da parte delle articolazioni deputate a ciò, non è indispensabile per l’esistenza del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., operando i due piani (giuridico e, per così dire, sociologico) su binari indipendenti”.
Ampio spazio viene dedicato all’esistenza della cosca egemone dei Mancuso, accertata in via definitiva nel processo “Dinasty” per il periodo fino all’anno 2003, ma all’attualità per come contestato in questa sede. Esistenza che anche in appello è stata riconosciuta dalla Corte la quale ha riportato numerosi riferimenti, anche e soprattutto sul ruolo apicale di Luigi Mancuso (la cui posizione era stata stralciata). La sua figura era già emersa nei processi “Tirreno” e “Mafia delle tre Province”, in cui sono stati esaminati i rapporti tra la ’ndrangheta reggina e quella del vibonese. In “Tirreno” Mancuso e il nipote Peppe ’mbrogghja figuravano promotori e dirigenti della consorteria; nella sentenza “Dinasty” si dà atto di come il clan Mancuso “si regga su legami familiari, che rappresentano l’elemento di coesione principale, sia all’interno della cosca (e nonostante gli accertati contrasti tra frange della stessa famiglia), sia all’esterno della stessa”.

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