Cronaca

‘Ndrangheta nel Crotonese, figlio del boss attendibile: “Ho rinnegato i Farao”

Nelle motivazioni della sentenza Stige, il gup spiega perchè ritiene credibili le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Farao

operazione-stige-new

“Il pentito Francesco Farao è attendibile, del resto ha dimostrato di conoscere fatti, che hanno consentito agli inquirenti nel corso di un sopralluogo, effettuato l’11 ottobre 2018, di sottoporre a sequestro numerosi beni riconducibili alle attività illecite poste in essere dalla cosca”. Il gup Giacinta Santaniello, nelle 1252 pagine della motivazione della sentenza Stige, con cui il 25 settembre dell'anno scorso ha decretato 66 condanne e 38 assoluzioni, per capi e gregari della cosca Farao-Marincola,  giudicati  con rito abbreviato, pone un punto fermo sul collaboratore di giustizia Francesco Farao, definendolo credibile. E lo è nonostante il parere contrario di molti difensori impegnati nel processo, perché arricchisce di dettagli, spiega connessioni, moventi, contesti storici dell’organizzazione di ‘ndrangheta diretta dal boss ergastolano Giuseppe Farao, 71 anni, con base operativa a Cirò e nei paesi limitrofi, dove è stata verificata anche l’operatività di due ‘ndrine satelliti: quella dei Casabona facente capo a Francesco Tallarico e quella di Strongoli, facente capo alla famiglia Giglio. Attraverso imprenditori compiacenti, la cosca avrebbe ottenuto rapidi pagamenti dalla Pubblica Amministrazione, recuperi crediti, lavori e commesse, riconoscendo di contro al sodalizio i più diversificati favori, dalle assunzioni ai finanziamenti, all’elargizione di somme di danaro, contribuendo a conferire sul territorio il più indiscusso potere alla ’ndrangheta.




Dichiarazioni credibili. Non basta affermare che il pentito sia stato condizionato dalla conoscenza degli atti di indagine o che lui abbia negato di far parte dell’associazione a delinquere di stampo mafioso pur rispondendo proprio di questo capo di accusa per sostenere la contraddittorietà o non veridicità delle sue propalazioni. Francesco Farao, figlio del capo cosca, come emerge dalle intercettazioni in carcere, è piamente integrato nella famiglia: apprende personalmente o tramite familiari di altri appartenenti alla cosca i consigli e gli insegnamenti del padre. Il collaboratore di giustizia vive, conosce, rispetta e fa proprie le regole di ‘ndrangheta imposte dal padre.

Il nome dei Farao rinnegato.  E’ proprio la perfetta conoscenza della ‘ndrangheta, a cui nega di appartenere, a spingere Farao a collaborare, il 16 gennaio 2018, a pochi giorni dall’esecuzione dell’ordinanza di 170 misure cautelari in carcere, su richiesta della Dda di Catanzaro diretta dal procuratore capo Nicola Gratteri. Per il gup le dichiarazioni del collaboratore non sono state condizionate dalla conoscenza degli atti: “non è logicamente ipotizzabile che Francesco Farao in una settimana abbia potuto prendere contezza dell’intera mole di atti di indagine”. Nel corso delle sue dichiarazioni  sono rari i casi in cui ha ammesso di non ricordare i fatti o di averli appresi dalle carte, per lo più il pentito racconta fatti di cui ha conoscenza diretta e la sua attendibilità risiede nelle ragioni che lo hanno spinto a collaborare: voleva rescindere i legami con la sua famiglia tant’è che addirittura chiede ai pubblici ministeri  che lo interrogano di non chiamarlo con il suo cognome.  A detta del gup, l’ingresso di Farao nell’associazione è determinata dal vincolo di sangue, più che dalla sua volontà, sua invece la successiva decisione di avvalersi di quella condizione di preminenza per lucrare maggiori vantaggi economici e sociali. Pur potendosi allontanare dal luogo di nascita e dalla propria famiglia per coltivare altrove le sue aspirazioni imprenditoriali, ha deciso tuttavia di lavorare proprio a Cirò dove era assolutamente ben consapevole del peso del proprio cognome e della conseguenze che ne scaturivano.  Lo stesso collaboratore in più occasioni ha ammesso che la sua appartenenza alla famiglia Farao  aveva costituito per lui un vantaggio nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, contribuendo al rafforzamento dell’associazione.

Gli affari della Meplacart. Con l’intestazione fittizia della Meplacart srl alla moglie, Farao ha messo in pratica quelli che erano gli insegnamenti del padre che raccomandava ai propri familiari di intestare a persone pulite della famiglia i beni, così da sottrarli alle mani dello Stato.  “Ho avviato l’azienda Meplacart srl, per la rivendita di cartoni e plastica, prima si chiamava  Meplacart di Malena Elena costituita originariamente insieme a mia moglie e poi successivamente con l’ingresso di altri soci Maria Giulia Lombardo e il marito Cataldo Siciliani. Per la Meplacart srl costituita nel 2014, avevamo previsto la spartizione al 50 % delle quote tra me e la Lombardo con designazione di amministratrice mia moglie. La quota sociale di Lombardo è in realtà da riferirsi al marito, i cui rapporti esistevano già prima della costituzione della società per quanto né lui né la moglie figurassero in società. Io non sono battezzato, per quanto essere il figlio di Giuseppe Farao capo del locale di Cirò, insieme a mio zio Silvio e Cataldo Marincola ha chiaramente agevolato le sorti della mia attività commerciale. Nel 2014 visto che gli affari andavano bene e volevamo con Siciliani utilizzare spazi più grossi mi misi alla ricerca di un capannone e ad aiutarmi per l’acquisto fu Pino Sestito, affiliato alla consorteria di Cirò e vicino a mio padre. Il cognome Farao ha permesso a me e ai miei soci di fatto di aumentare la clientela, tanto da potervi dire che il fatturato della Meplacart si aggirava sui 900mila euro. Molti utilizzatori di cartoni e plastica, una volta saputo  che io avevo intrapreso questa attività mi chiesero di rifornirsi da me. Io infatti facendo il rappresentante dell’azienda mi recavo in diversi negozi nella zona di Cirò, Cirò Marina insieme a Torretta di Crucoli, Cariati e Casabona.

 I rapporti con gli affiliati al clan di Cirò. La conoscenza di Pino Sestito e Salvatore Morrone, affiliati al clan di Cirò è datata nel tempo. Mio padre carcerato  ha sempre raccomandato a me e ai miei fratelli Vincenzo e Vittorio che per qualsiasi cosa avevamo bisogno potevamo rivolgerci  a loro due e a Vito Castellano, per il tramite di mio cugino Vittorio Farao, il figlio di Silvio. Non essendo battezzato non so che grado abbiano all’interno della consorteria, ma sono loro a comandare a Cirò Marina. Mio padre ci diceva nel corso dei colloqui carcerari , che non dovevamo immischiarci in situazioni illecite che avrebbero potuto attirare l’attenzione delle Forze dell’ordine. Infatti portando il cognome di Farao era facile essere attenzionati. Ricordo che addirittura per la ricerca del lavoro a mio fratello Vittorio, mio padre mi disse sia a me e che a lui nel corso dei colloqui di mandare Ciccio Castellano o Pino Sestito o “il biondo” (Salvatore Morrore ndr) a parlare e trovare un posto di lavoro per mio fratello".  Farao ha raccontato anche di come l’attività della Meplacart fosse entrata in contrasto con l’Universal Distribution di Martino Cariati, che rivendeva prodotti da imballaggio similari a quelli venduti dalla Meplacart. “Ricordo che un giorno mi convocarono Giuseppe Spagnolo e Martino Galati nei locali della vecchia sede della Universal Distribution. Spagnolo mi disse che non avrei dovuto fare concorrenza nella rivendita di prodotti di imballaggio e mi ordinò di cedere il mio materiale. Mi rivolsi quindi al “biondo” che intervenne a mio favore rassicurandomi sulla possibilità di lavorare, tenuto anche conto della posizione della mia famiglia. Morrone aggiunge che era giusto che io lavorassi, in quanto avevo un padre carcerato e uno zio latitante. Del resto, a detta, di Morrone, alias il biondo, non facevo nulla di illecito da dare fastidio alla consorteria cirotana: non favo estorsioni, né imponevo i prodotti della mia azienda”.

LEGGI ANCHE Inchiesta Stige, le direttive date in carcere dal boss Farao a figli e gregari