Cronaca

Inchiesta Stige, le direttive date in carcere dal boss Farao a figli e gregari

Emergono ulteriori dettagli nella motivazione della sentenza contro capi e gregari della cosca Farao- Marincola. Dai colloqui carcerari alle strategie di sviluppo

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Diverse sono le fonti di prova che consentono di ritenere acclarata l’esistenza del potere criminale del locale Farao- Marincola di Cirò. Una famiglia di ‘ndrangheta che negli anni si è caratterizzata da alleanze e scissioni, con fasi di lacerazioni e di contrasti anche violenti e che costituisce un’importante articolazione della “Provincia” di Nicolino Grande Aracri, a cui è legata in una sorta di cartello unitario.

Le strategie dettate dal carcere. Il gup, nella motivazione della sentenza Stige riporta una serie di colloqui carcerari tra il boss Giuseppe Farao e i suoi familiari, colloqui che forniscono uno spaccato delle strategie operative del locale cirotano, dei rapporti sul territorio calabrese con altre consorterie contigue, dal locale di Cutro alla ‘ndrina di Strongoli, dell’espansione commerciale nel Nord Italia, sino alle attività di export in Germania. Colloqui in carcere che dimostrano la vitalità della cosca, malgrado i fratelli Farao, Silvio e Giuseppe fossero in carcere. Le risultanze intercettive hanno consentito di dimostrare non soltanto che il sodalizio è coeso, ma che rimane diretto  dai fratelli Farao e Cataldo Marincola, nonostante le sbarre, nominando per la gestione degli affari Pino Sestito, Ciccio Castellano, Marino Cariati, Peppe “U Bandito” e Salvatore Morrone, “U biondo”, in costante rapporto con i figli di Silvio e Giuseppe Farao, a cui  passavano informazioni da veicolare ai capi detenuti. Erano questi ad avere l’ultima parola sulle decisioni delle attività della cosca.

Le imbasciate Giuseppe Farao pretendeva di incidere sulle strategie di sviluppo della cosca, oltre ad assicurare il sostentamento economico per i propri figli e degli altri capi detenuti. Il boss veniva costantemente aggiornato sulle attività imprenditoriali dei sodali cirotani, dando a sua volta, indicazione sulla selezione dei prestanome e sulle strategie per dissimulare al meglio la dimensione ‘ndranghetistica delle stesse imprese. Ogni colloquio tra il boss Farao  e i suoi familiari è permeato dalla rivendicazione da parte del detenuto del comando sulla cosca ma anche dalla preoccupazione di preservare i familiari da possibili catture, in modo da assicurare la continuità nella detenzione del potere. Ed è questo il motivo per cui il capo cosca insisteva affinchè i figli trovassero lavoro, un modo per sottrarli all’attenzione degli inquirenti, invitati ad assumere sempre un atteggiamento cauto, a non parlare esplicitamente al telefono o all’interno delle automobili, per evitare di essere intercettati.

Lo stile di vita consigliato dal boss. Sono tanti i colloqui nei quali il capo dispone che figli e nipoti dovevano limitarsi a lavorare, impegnandosi in attività imprenditoriali, evitando di commettere reati mediante uso di minaccia, tipici di una tradizionale organizzazione di ‘ndrangheta, ormai superata. Le azioni violente che in passato gli stessi padri avevano commesso per essere rispettati sul territorio non erano più necessarie: la nuova generazione doveva essere diversa, potendo beneficiare del lavoro “sporco” affidato ad altri e mostrando il volto pulito di giovani onesti imprenditori. Lo stile di vita consigliato da Farao, era quello di intervenire senza l’uso della prepotenza, evitando anche le cattive compagnie per non dare nell’occhio. Un sistema ben congeniato: gli appartenenti alla famiglia di sangue dovevano rimanere puliti, avere un lavoro dipendente oppure autonomo, “ormai i tempi sono cambiati, …devono andare gli altri per voi, perciò quando c’è qualcosa, venite qua e gli ordini li dò io e basta”,   a tutto il resto ci avrebbero pensato gli altri appartenenti alla cosca, deputati a reggere il clan facendo le veci dei reggenti detenuti. Farao consigliava ai congiunti di coltivare i rapporti con esponenti di altre ‘ndrine, in particolare con quella di Corigliano Calabro, con cui era necessario mantenere l’amicizia dando precise indicazioni sui buoni rapporti da tenere con le famiglie Marinaro di Corigliano e Trapasso di Cutro, che controllava il territorio di Cropani, raccomandando di adottare le cautele necessarie per non farsi notare dalle Forze dell’ordine.

I consigli. Altre direttive riguardavano la gestione di un credito di natura estorsiva o usuraia con l’imprenditore Nicola Flotta, proprietario di una struttura ricettiva a Mandatoriccio, denominata “Castello Flotta”. Giuseppe Farao, 37 enne comunicava allo zio detenuto di aver pressato Flotta per avere denaro “gli ho detto che i due anni sono passati” e il boss affermava però che non sarebbe stato conveniente insistere su Flotta, il quale, in passato aveva organizzato gratuitamente nella sua struttura la cerimonia matrimoniale di molti accoscati “perché se noi facciamo il conto di tutti i matrimoni, se avessimo dovuto pagare…gli devi dire che ti ho mandato tanti saluti e basta, però non forziamo perché… quando si tira la corda poi si spezza, l’arroganza mettetevelo in testa che non serve”.

Ulteriori conversazioni riguardano le infiltrazioni nelle amministrazioni: Farao dal carcere dimostrava di essere al corrente persino di quanti consensi elettorali avesse ricevuto Giuseppe Berardi, indicato come “Giuseppe nostro”, al quale sarebbe stata affidata la delega di assessore ai lavori pubblici nell’ambito delle elezioni di Cirò. Significativo anche il riferimento al denaro necessario per l’assistenza giudiziaria di Berardi. Giuseppe Farao chiede ad una persona coperta da omissis se “la parte di Giuseppe l’hai cacciata… No perché rimane!! .. Al comune gli hanno dato l’incarico…!!! A Cirò l’hanno messo sotto inchiesta per mafia! L’hai saputo?”. Il detenuto Giuseppe Farao attingeva dalla moglie informazioni anche sul fratello Silvio all’epoca latitante e una volta intuito che si stava in quel periodo rifugiando nella città di Cirò, non mancava di dispensare consigli ai familiari… “Statevi attenti che… prendono tutti quanti!!! Non li sentite i telegiornali?”. Tra i tanti colloqui carcerari intercettati c’è quello tra il boss  e suo figlio Vittorio. L’oggetto è una somma di denaro che doveva essere richiesta a titolo estorsivo ad un imprenditore edile locale. Giuseppe Farao “consigliava”  al figlio di pretendere il versamento di una parte dei proventi dell’attività dell’impresa edile, 5-6mila euro, utilizzando quale pretesto il proprio bisogno di pagare le cure odontoiatriche cui si sarebbe dovuto sottoporre. E la raccomandazione era chiara. Bisognava investire del problema Vito Castellano, detto “Ciccio”, il quale avrebbe dovuto pretendere il denaro da consegnare poi alla loro famiglia, perché le mani figli e nipoti non se le dovevano sporcare mai.

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