Telecamere “spente” per aiutare i killer della Chindamo? Ascone fa scena muta e non risponde alle domande del gip

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Si è avvalso della facoltà di non rispondere Salvatore Ascone, 53 anni, arrestato dai Carabinieri di Vibo con la pesante accusa di concorso nell’omicidio di Maria Chindamo, l’imprenditrice di Laureana di Borrello scomparsa nel nulla il 6 maggio del 2016. L’uomo, ritenuto dagli inquirenti vicino ai Mancuso di Limbadi, è il proprietario del casolare di campagna ubicato in località Montalto, proprio di fronte all’azienda agricola della donna. Davanti al gip De Gregorio, l’uomo (difeso dagli avvocati Francesco Sabatino e Salvatore Staiano) ha scelto la linea del silenzio durante l’interrogatorio di garanzia che si è svolto in mattinata nel carcere di Vibo. Scena muta.

Le accuse. La Procura di Vibo gli contesta il reato di concorso in omicidio con soggetti allo stato ignoti. Secondo gli inquirenti avrebbe contribuito a cagionare la morte di Maria Chindamo “manomettendo il sistema di videosorveglianza installato nella sua proprietà allo scopo di impedire la registrazione delle immagini riprese dalla telecamera orientata sull’ingresso della proprietà dell’imprenditrice di Laureana di Borrello, dove la donna fu prelevata e portata via la mattina del 6 maggio 2016”. Agli investigatori che nel maggio del 2017 lo sentirono a sommarie informazioni Ascone dichiarò testualmente: “Le chiavi della casa dove sta custodito l’Hard disk ce lo ho solo io oppure mia moglie. Sicuramente nessuno può aver avuto accesso all’abitazione perché c’è anche un impianto di allarme ed arriva la segnalazione sul telefonino mio, di mia moglie e dell’operaio che si chiama Nicolai”. Quest’ultimo è l’operaio romeno iscritto sul registro degli indagati e per il quale il gip non ha ravvisato l’esigenza di applicare la misura cautelare. Come Ascone è però accusato di concorso in omicidio e resta indagato a piede libero. 

Le dichiarazioni di Emanuele Mancuso. Ad aggravare la posizione di Ascone sono le dichiarazioni fornite dal collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso che tendono a rafforzare l’ipotesi accusatoria di una manomissione temporanea volontaria del sistema di videosorveglianza. Il figlio di Panteleone Mancuso, alias l’ingegnere, aveva una frequentazione pressoché giornaliera con gli Ascone e ben conosceva le abitudini della famiglia. Il collaboratore di giustizia ha riferito un particolare fondamentale alle indagini: la “mania” o la “paranoia” di Salvatore Ascone per i sistemi di videosorveglianza. “Ho sempre notato che era solito monitorare con sistemi di videosorveglianza tutti i luoghi di sua proprietà, sia l’abitazione, sia la casa in campagna, nonché i capannoni e i luoghi in cui aveva beni e animali… omissis … Era particolarmente attento al funzionamento di questo sistema al punto che quando c’erano dei guasti subito chiamava il tecnico affinché se ne occupasse”. Proprio il mancato funzionamento delle telecamere il giorno dell’omicidio della Chindamo fu oggetto di un discorso tra Emanuele Mancuso e gli Ascone dopo la scomparsa della donna. “Salvatore Ascone mi disse – spiega agli inquirenti il collaboratore di giustizia – che le telecamere erano spente proprio quel giorno”. La “rivelazione” fece agitare la moglie che si affrettò a precisare che si trattava di un “malfunzionamento”.

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