Cronaca

Rinascita, Mantella racconta il clan vibonese che “da padrone è diventato garzone”

E riguardo i suoi propositi "rivoluzionari" l'ex boss spiega: "Dovevo affrontare il colosso, dovevo bonificare Vibo dai Mancuso e dai Fiarè"

mantella andrea rinascita scott aula bunker

Quella dei Pardea-Ranisi “è una famiglia di ‘ndrangheta storica che operava su Vibo città”, ma poi “perdono in un certo senso credibilità su Vibo Valentia e, come si suol dire, da padroni sono diventati garzoni”. In che senso? “A inizio anni ’80 emerge la figura di Carmelo Lo Bianco come capo ‘ndrangheta e praticamente vanno addirittura sotto i Lo Bianco, erano una loro cosca satellite, non avevano un’autonomia”. A spiegare le dinamiche dei clan vibonesi è stato nei mesi scorsi l’ex boss Andrea Mantella, collaboratore di giustizia dal 2016, all’interno del maxi processo Rinascita Scott. Il capo dei Pardea-Ranisi, afferma, era “Ciccio Pardea che si sposò con una Mantella che a quei tempi era mia zia, sorella di mio padre”. Ma ha citato anche Domenico Camillò che “era il rappresentante della famiglia Ranisi, era una figura abbastanza verticistica, uno dei più anziani”.

“Devi essere presente sul territorio”.
Dagli anni ’80, quindi, la “cosca storica” perde “credibilità” ma “erano sempre rispettatissimi, erano comunque criminali”. “Sono anche stati colpiti da vicende giudiziarie, da lunghe detenzioni – aggiunge Mantella, quasi a voler giustificare il loro declino criminale – al contrario dei Lo Bianco”. E questo ha contribuito al loro minor peso criminale perché “è normale se te ne vai in carcere per tantissimi anni e non sei presente sul territorio, perchè si, rimane la figura di ‘ndranghetista, però devi anche stare sul campo”.

“Io non ero sottomesso a nessuno, i Lo Bianco erano succubi”.
I rapporti con lo stesso Andrea Mantella diventano poi più stretti quando l’ex boss vibonese decide di diventare autonomo e dichiarare guerra alla potente famiglia dei Mancuso. “Quando ero in autonomia – spiega – avevo un rapporto diretto con tutti i Ranisi, sia con le giovani leve che con gli anziani”. Questo, racconta, vista l’affinità di vedute: “Tutta la famiglia Ranisi-Pardea sposava i miei propositi rivoluzionari. Vedevano le cose con un occhio diverso, al contrario dei Lo Bianco che erano molto remissivi e succubi dei Mancuso. Io non ero sottomesso a nessuno e loro mi aiutavano, erano funzionali alle mie esigenze”. Chiarendo che “io non ho fatto una scissione dai Lo Bianco, loro erano messi lì, tranquilli, mentre io dovevo affrontare il colosso: dovevo bonificare Vibo dai Mancuso, dai Fiarè, da questi qui“.

“Gli dicevo ‘si che poi l’ammazzi, non ti preoccupare'”.
In quel momento “Domenico Camillò – alias ‘Mimmo Mangano’, una figura di vertice dei Pardea Ranisi – era si compagno di merenda di Enzo Barba e Carmelo Lo Bianco, ma non poteva far capire che sposava la mia tesi, quindi faceva buon viso a cattivo gioco“. Inoltre, continua ancora Mantella, “so che quando erano con me avevano propositi omicidiari nei confronti di Rosario Cassarola“. Un’ipotesi però mai presa realmente in considerazione: “Ma si figuri – ha detto il pentito al pm della Dda di Catanzaro Andrea Mancuso – se io gli potevo dare il beneplacito di sparare contro di lui“, e a chi gli faceva presente questa loro intenzione “gli dicevo ‘si si che poi l’ammazzi, non ti preoccupare’“.

Le informazioni sui clan attraverso gli avvocati.
In ogni caso, spiega, essendo funzionali alle sue esigenze ma nulla di più, “quando sono andato in carcere non mi sono più interessato in prima persona”. “L’unica cosa che le posso dire – aggiunge il pentito – è che ricevevo delle informazioni rassicuranti, attraverso qualche avvocato, sul fatto che nella mia fazione era tutto a posto, che la mia corrente era come l’avevo lasciata”.

 

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