LA STORIA | Io, giornalista, mi sono vaccinato al Palazzetto di Vibo. E ho visto cose che voi umani…

Racconto semiserio del "gran giorno" della vaccinazione. Tra "i figli del collega", imitazioni di Crozza, persone senza prenotazione, salvezza del mondo, "giurin giurello" e... tanto (ma tanto) altro

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Ho 24 anni, faccio il giornalista, e ieri – venerdì 11 giugno – mi sono vaccinato al Palazzetto dello sport di Vibo Valentia. Tutto è iniziato mercoledì sera quando, tornato da qualche giorno fuori regione, decido finalmente di prenotare la somministrazione. Con incredibile sorpresa l’appuntamento più vicino è neanche due giorni dopo: venerdì subito dopo pranzo. Con me si prenota anche mio fratello. A lui va meglio: trova un posto libero giovedì sera. “Fortunello”, penso. Invece no: siccome ha un’allergia a un farmaco gli diranno di tornare il 25 giugno. Perché proprio in quella data non si è capito. Avrà la luna favorevole e sagittario contro. O dopo quasi 30 anni smetterà di essere allergico. Lo scopriremo strada facendo.

Ma torniamo a noi. Da mercoledì sera a venerdì alle 15 il pensiero torna spesso sulla vaccinazione. Lo dico ai colleghi di Zoom24, agli amici, ai parenti. Capto informazioni varie. La prima è che una cara amica in Toscana ha prenotato prima di me e ha l’appuntamento il 7 agosto. Sarà che in Calabria non si sta vaccinando nessuno? “Macchè, conosco un sacco di gente che si è vaccinata” mi dice un’altra amica. Io le credo, ma i giornali dicono che la Calabria è penultima nella classifica nazionale. Ma si sa, sono tutti invidiosi. L’ha scritto Spirlì in uno dei suoi pacati post su Facebook.

Intanto gli stessi giornalisti, invidiosi e terroristi, continuano a parlare di Astrazeneca come il male assoluto della società. Qualcuno dice che ha votato contro Vibo Capitale italiana del libro. Altri che Gratteri voglia incriminarlo per concorso esterno in vaccinazione. Ma a me, sinceramente, non me ne può fregar di meno. Ho fatto il giornalista per salvare il mondo e adesso, con il minimo sforzo e senza sorbirmi delle noiose polemiche, posso dare una mano a debellare una pandemia mondiale. Non so se si è capito bene: d-e-b-e-l-l-a-re una p-a-n-d-e-m-i-a m-o-n-d-i-a-l-e. Ringraziatemi pure senza problemi, non c’è di che. Tanto più che, più passano i mesi, più è solo questione di tempo prima di prendere il Covid.

Arriva venerdì. La mattinata al Comune di Vibo per Zoom24, poi torno a casa, mangio, mi preparo. Cosa mi metto? Una maglietta sicuramente – il medico deve poter raggiungere la spalla – ma quale? Mica posso andare a debellare una pandemia mondiale senza l’outfit giusto. Trovato! La maglietta della vita: quella con la gigantesca scritta “NON MI AVETE FATTO NIENTE”, presa dalla canzone di Fabrizio Moro ed Ermal Meta che vinse Sanremo nel 2018. Non mi avete fatto niente, virus maledetti. Anche se forse non è scaramanticamente il caso di sfidarli così apertamente. Ma tant’è, ormai sono in macchina.

Arrivo al Palazzetto dello sport. Metto la vibrazione al telefono, come a messa. Non sia mai squilli mentre ho un ago nel braccio. Mi avvio all’entrata. C’è abbastanza gente ma la distinzione sembra facile. Due entrate, due cartelli: “prima dose”, “seconda dose”. Scelgo la prima porta, ovviamente.  Mi avvicino e uno dei volontari mi ferma: “Sei allergico?”. “No”. “Allora devi andare dall’altra parte”. “Dove c’è scritto ‘seconda dose’?”. “Si esatto”…Iniziamo bene. Ma il meglio, anche se non lo potevo sapere, doveva ancora venire.

Arrivo all’altro ingresso. Mi dicono di aspettare e io, noto per la mia proverbiale diligenza, aspetto. Tra il tono drastico di una signora inutilmente melodrammatica e un’altra che afferma di non essersi prenotata e di voler sapere quali vaccini sono disponibili. “Va beh non la faranno entrare, non è prenotata” penso. Illuso. Entra. E mi passa anche davanti. “Dovete aspettare che c’è nu burdellu”, “eh forse si è creato perché entra anche chi non è prenotato”. Il volontario mi risponde che no, non è per quello. Ma lo fa in un modo che a me suona tanto come Crozza che imita Razzi (“No io questo non creto”).

A un certo punto, nell’attesa, la consapevolezza: non cambieremo mai. O forse si. Non lo so, non è questo il momento di pensarci. Romperò dopo le scatole al mio direttore dicendogli che non stiamo facendo abbastanza per cambiare il mondo. Una cosa nel frattempo è certa: ci hanno detto di aspettare fuori ma i più furbi passano avanti. E quindi mi adeguo alla legge della giungla: entro anch’io.

Mi assegnano un numero, il 49. Neanche 5 secondi dopo è evidente che quel numero è più inutile della polemica sul muretto in piazza Municipio: le persone passano avanti, i volontari chiamano numeri a caso, i più furbi fanno finta di niente e saltano la fila. A un certo punto la signora senza prenotazione (quella di prima, ve la ricordate?) con un dribbling incredibile evita tutti noi in attesa sugli spalti e sta per entrare nel campo da gioco allestito a centro vaccinale. Dai, qualcuno dovrà pur dire qualcosa. “Signora guardi che c’è il numero” dico allora con un gentile sorriso nascosto dalla mascherina. “Si si lo so, si figuri se passo avanti…”. Un minuto esatto dopo, anche con la complicità della Protezione civile, era nel campo. Arriva un altro volontario della Prociv e qualcuno, che aveva assistito alla scena, accenna una timida protesta. “Ma state tranquilli che non supera nessuno”. “No guardi che è appena successo davanti ai nostri occhi”. “Mi dai la mano che è successo?”. Ehm… in che senso? “Eh vedi”. È un passaggio che sono qui a raccontarvi ma che non ho realmente capito. Forse era un segnale segreto. O forse voleva che facessi “giurin giurello”. Non lo sapremo mai.

Ma tant’è. “Su forza non vi preoccupate, adesso mi porto i primi 4”, grida una volontaria. In che senso “mi porto”? In ogni caso tra un “non badate ai numeri” e un “dai che mo vengo a prelevarvi tutti in una volta”, arriva il mio turno. Mi siedo, consegno i fogli. Mentre sono lì arriva un altro volontario che consegna due serie di fogli e dice “dottoressa, questi sono dei figli dei colleghi”. Va bene tutto, ma così spudoratamente no, dai. Rifaccio lo stesso gentile sorriso di prima e chiedo: ”Perchè, i figli del collega non devono fare la fila come tutti gli altri?”. “…non ho fatto niente infatti”. “Si però ha messo i fogli qua”. “Ma non è nulla di illecito, è che le forze dell’ordine hanno una corsia preferenziale”. “Ah, capisco… anche i figli delle forze dell’ordine?”. Spiazzato. “Ma perchè dovete sempre fare polemica!”. A quel punto lascio da parte l’anonimato e gliela butto là: “Eh sa, i giornalisti fanno così…”. La discussione si tranquillizza e il signore, che stava palesemente facendo saltare la fila ai “figli del collega”, ripete solo che non era nulla di illecito.

Finisco l’accettazione e vado avanti. Ci sono due dottoresse, vicine, libere. Una è più anziana e una più giovane. Seguo un qualche casuale pregiudizio e scelgo quella più giovane. Niente, è poggiata alla sedia e guarda il telefono. Non mi degna di mezzo sguardo, forse sfinita da un lungo turno. Dopo pochi secondi decido allora di alzarmi e andare dalla dottoressa accanto. Capisce, ride, e mi fa l’anamnesi. Tutto a posto, posso vaccinarmi. E nella lotteria dei vaccini la sorte ha estratto per me “Pfizer”. Poco male, avrei fatto qualunque molto volentieri.

Vado ancora avanti. Sono in fila, davanti a me dei giovani giocatori della Tonno Callipo. Prendo il telefono e inizio a scrivere appunti pensando a questo pezzo. Mi accorgo che è quasi il mio turno, alzo gli occhi e… chi mi trovo davanti? La signora senza prenotazione! Mentre rifletto sul fatto che non può funzionare un sistema che prevede la prenotazione ma che senza chissenevengapureesaltilafila, è arrivato il mio turno. Ci siamo. È il momento. Lo aspettavo da mesi. Mi siedo, guardo la dottoressa, e mi esce fuori la domanda che nell’ultima ora ho scacciato via almeno una decina di volte: “Quanto male farà?”. “La puntura?”. “Si”. ”Giudichi lei”.

Nulla, non ha fatto male. Un ago sottile che non si è sentito quasi per nulla. Esco, mi metto in fila per avere la prenotazione della seconda dose. Mi guardo intorno: c’è abbastanza gente, per lo più giovani e persone di mezza età. Mi sembrano equamente distribuiti tra uomini e donne. Vicino a me delle ragazze, forse appena maggiorenni, scherzano sulla paura dell’ago. Qualcuno si lamenta che qualcun’altro è passato avanti tra un passaggio e l’altro. “I soliti cafoni vibonesi”, dice. Mi rendo conto che nel suo ragionamento ci potrei essere anch’io, probabilmente. Ma in realtà ho sempre chiesto, passo dopo passo, e ho sempre seguito le indicazioni. Ed è in quel momento che capisco che questa storia del turno, come alle poste, forse ci sta solo incattivendo. Inutilmente.

In ogni caso è fatta. Sono vaccinato. Nonostante tutto in un’ora sono entrato e uscito. Viene la tentazione di abbassare la mascherina e dire “tanto sono vaccinato”. Ma, babbeo, è passato un minuto. Dalla prima dose. Quando per essere immuni deve passare qualche settimana dalla seconda. Rialzo la mascherina e mi siedo in macchina. Mando una foto trionfante ai colleghi (quella di apertura dell’articolo) e scrivo: “Vaccinato!!! Volevo farmi la foto con il cerotto ma non me l’hanno messo…”. Seguono risate e congratulazioni. Mi dirigo verso la redazione di Zoom24: gli articoli che scriverò oggi, probabilmente, non salveranno il mondo. Ma l’aver fatto il vaccino si. E per oggi sai che c’è? Va anche bene così.
Anche se, ora che ci penso, chissà com’è finita la storia dei figli del collega…

P.S. Al di là dell’ironia, ringrazio l’ottimo lavoro di medici, volontari e Protezione civile. Stanno facendo un grande lavoro, da mesi, che ci permetterà di sconfiggere il Covid (e salvare il mondo). Senza di loro tutto questo non sarebbe possibile. Il mio è un racconto semiserio che, palesemente, non vuole offendere nessuno. Buon lavoro a tutti coloro che sono impegnati nella vaccinazione, grazie di cuore!

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