Cronaca

Rinascita, lo scontro Cracolici-Bonavota e la Calabria “dietro l’angolo” a Torino

Il pentito Francesco Costantino, interrogato nel corso del maxi processo, ha raccontato anche dell'agguato fallito per un errore sul “maglione celeste”

rinascita aula bunker

Dalla ‘ndrangheta “dietro l’angolo” nel Nord Italia alla faida tra il clan dei Bonavota e quello dei Cracolici. Sono stati questi i temi trattati dal pentito Francesco Costantino nel corso della sua testimonianza nel maxi processo “Rinascita Scott”. L’uomo, 58 anni, ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 2008 perchè “volevo salvaguardare la mia famiglia, soprattutto mio figlio: non volevo assolutamente che venisse a contatto con contesti criminali”. Costantino cresce a Maierato, in un terreno confinante con quello della famiglia di Raffaele Cracolici, ed è lì che inizia a entrare in contatto con la cosca. “Ci frequentavamo per via del fatto che c’erano buoni rapporti con i miei genitori – ha raccontato rispondendo alle domande del pm Antonio De Bernardo – quindi frequentavo i suoi figli. Siamo cresciuti insieme, tante volte dormivo a casa sua, mangiavo da loro”. Con il tempo, però, “mia madre ha preferito emigrare, ha voluto allontanarci da Maierato: per questo all’inizio degli anni ’80 ci siamo trasferiti in Piemonte per essere distanti da quella realtà”.

“La Calabria a Torino era dietro l’angolo”. 
Non andò proprio così, però. “Nonostante il trasferimento in Piemonte i rapporti sono continuati”, ha spiegato Francesco Costantino. Anche perchè diversi esponenti della cosca dei Cracolici – “possiamo dire che quello dei Cracolici era un clan mafioso” – erano presenti nel Nord Italia. I rapporti così continuarono, con i fratelli di Raffaele Cracolici, per alcuni traffici di droga. Siamo tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000. Costantino ha sintetizzato bene la situazione dicendo che: “La Calabria a Torino era dietro l’angolo”. C’erano infatti gli interessi di varie altre cosche: lo stesso collaboratore è entrato in contatto con Giuseppe Campisi, che descrive come “l’uomo di ‘Peppe’ Mancuso (detto ‘Mbrogghja’) al Nord Italia”. In Piemonte, inoltre, c’erano diversi soggetti legati ai Bonavota.

Gli scontri con la cosca dei Bonavota.
La deposizione si è poi incentrata proprio sui rapporti tra i Cracolici e la cosca Bonavota di Sant’Onofrio, che “non sono mai stati sicuramente splendidi, fino al punto che sono sfociati in una guerra”. Il motivo, aveva dichiarato Costantino nei verbali della collaborazione, erano stati i contrasti nella gestione degli affari illeciti nella zona industriale di Maierato. “A Maierato – racconta Francesco Costantino – in un primo momento erano influenti i Cracolici, poi sono intervenuti i Bonavota. Naturalmente per poter prendere la zona di Maierato dovevano eliminarli“. Gli stessi Cracolici a cui “tutti hanno girato le spalle”: “Sembravano ben alleati nella zona, mentre poi si è scoperto che erano tutti insieme ai Bonavota”. Tra gli alleati dei Bonavota, evidenzia, c’erano le famiglie Fruci e Anello, oltre al gruppo guidato da Andrea Mantella.

L’agguato fallito per l’errore sul “maglione celeste”.
La “guerra” va avanti e viene ucciso Alfredo Cracolici. “Raffaele Cracolici – spiega il pentito – mi disse che erano stati i Bonavota ad ammazzare il fratello Alfredo, nello specifico mi sembra fossero Domenico e Pasquale Bonavota”. Lo stesso Raffaele che “li scherniva dicendo che non erano stati nemmeno capaci ad ammazzarlo, perchè era stato colpito da un proiettile di rimbalzo”. Per vendicare quell’omicidio, poi, Francesco Costantino era andato con Francesco Cracolici, figlio dello stesso Alfredo Cracolici che era stato assassinato, a uccidere un certo “Acquaiolo” che aveva compiuto l’omicidio con i Bonavota. “Non sapevo neanche chi era – spiega il pentito in aula – mi era stato detto solo che aveva maglione azzurro. Siamo quindi andati di prima mattina nel posto dove giocavano a bocce e ci siamo nascosti dietro alcuni cespugli”. Quando arrivano gli interessati “una persona si stacca dal gruppo e viene verso il viottolo dov’eravamo noi”. Per una mera coincidenza, però, anche questo soggetto indossava un maglione celeste: “Per questo io mi alzai e puntai con un fucile questa persona, ma Francesco mi fermò dicendo che non era lui l’obiettivo”. Ormai però erano stati scoperti e per questo l’“Acquaiolo” si mise a correre. “Noi gli siamo corsi dietro sparandogli”, ma senza riuscire a ucciderlo. “Mi fu detto solo successivamente che l’avevamo colpito all’inguine”. L’agguato quindi fallisce “e io fui portato a Lamezia e tenuto nascosto”, a tutela della sua incolumità.

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