Cronaca

Estorsione a imprenditore di Nicotera, chiesto il processo per undici imputati (NOMI)

Nell'elenco ci sono anche l'anziano boss Antonio Mancuso e il nipote Alfonso Cicerone. Fissata per il prossimo 13 luglio l'udienza preliminare

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Un incubo durato otto anni. E’ quello vissuto da Carmine Zappia, l’imprenditore di Nicotera finito in un vorticoso giro di usura ed estorsione, “liberato” dai carabinieri nel luglio scorso al termine di un’indagine-lampo sfociata in un blitz nel corso del quale erano stati arrestati lo storico boss di Limbadi, Antonio Mancuso, 81 anni, esponente dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta, e il nipote, Alfonso Cicerone, 45 anni. Altre cinque persone, tutte di Nicotera, erano invece finite sul registro degli indagati. A distanza di quasi un anno dal blitz compiuto all’alba del 18 luglio, la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che ha coordinato il lavoro svolto sul campo dai militari del Compagnia di Tropea, ha chiesto il rinvio a giudizio per undici persone. Oltre all’anziano boss Antonio Mancuso e al nipote Alfonso Cicerone, nell’elenco ci sono: Giuseppe Cicerone, 89 anni di Nicotera; Salvatore Comerci, 35 anni di Nicotera; Salvatore Gurzì, 35 anni di Nicotera; Andrea Campisi, 38 anni di Nicotera; Rocco D’Amico, 39 anni di Nicotera; Gabriele Gallone, 19 anni di Nicotera; Francesco D’Ambrosio, 40 anni di Nicotera; Francesco Ivan D’Aloi, 20 anni di Nicotera; Giovanni Iermito, 23 anni di Comerconi (frazione di Nicotera). Devono rispondere, a vario titolo ed in concorso tra di loro, di usura, estorsione, trasferimento fraudolento di valori, furto. Reati aggravati dal metodo mafioso. Il giudice Paola Ciriaco ha fissato per il prossimo 13 luglio l’udienza preliminare nei confronti degli undici imputati.

Il boss non va in pensione. Classe ’38, esponente di spicco della cosiddetta “generazione degli 11” dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta egemone in provincia di Vibo Valentia, Antonio Mancuso, già condannato in via definitiva nel processo “Dinasty” per associazione mafiosa ed imputato in “Black Money” ancora in corso dinnanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro, è oggi detenuto nel carcere di Secondigliano dopo essere stato arrestato nel blitz dello scorso 18 luglio. Per i Carabinieri della Compagnia di Tropea sarebbe elemento apicale della consorteria ‘ndranghetistica operante nel territorio nicoterese, nonché il “fulcro” dell’attività investigativa che ha portato a fare luce sull’estorsione perpetrata ai danni dell’imprenditore di Nicotera. Per gli inquirenti, nonostante l’età, avrebbe continuato a gestire in prima persona gli affari illeciti di una parte della potente “famiglia” di Limbadi.

La denuncia. Nel maggio dello scorso anno, l’imprenditore nicoterese Carmine Zappia vessato dalle pesanti richieste estorsive, ha deciso di raccontare tutto agli inquirenti. Da qui è partita un’indagine lampo fatta di pedinamenti, intercettazioni telefoniche e ambientali portata avanti dai Carabinieri della Compagnia di Tropea con l’ausilio dei militari della Stazione di Nicotera. In poche settimane gli investigatori hanno riscontato quanto sostenuto dalla vittima. La sua odissea era iniziata otto anni prima, esattamente nel maggio del 2011, con l’acquisto di un immobile composto da due piani fuori terra a Nicotera. Valore dell’investimento: 400 mila euro. Metà dell’importo veniva immediatamente consegnato mentre per la quota restante si stabilivano dazioni periodiche senza termini temporali. I problemi per l’imprenditore iniziavano subito dopo il perfezionamento della compravendita e il pagamento della prima parte dell’importo. I venditori iniziavano ad avanzare in maniera in maniera sempre più minatoria le richieste della consegna del denaro. Davanti alle risposte evasive del loro debitore si sarebbero quindi rivolti ad esponenti vicino ad Antonio Mancuso per avere quanto pattuito e recuperare il credito.

Le intercettazioni. Un incubo destinato ad aggravarsi con l’entrata in scena dell’anziano boss, temuto e rispettato. Quel credito veniva rilevato proprio da lui e all’imprenditore veniva comunicato che le erogazioni di denaro sarebbero dovute finire nelle mani dello “Zio Antonio”, al secolo Antonio Mancuso. A farsi da intermediario delle minacce sarebbe stato proprio Alfonso Cicerone, il nipote del boss. La situazione precipitava nel momento in cui la vittima pattuiva la cifra di cinquemila euro ogni trimestre senza riuscire però a corrispondere il denaro. Così le minacce si facevano sempre più esplicite e con esse arrivava anche l’ordine di chiusura dell’attività commerciale: “Non aprire la serranda che mi incazzo” urlava con toni minacciosi Cicerone, il quale consigliava la vittima di chiedere un prestito usuraio al Mancuso per ripianare i debiti. Un inferno per l’imprenditore per una vicenda senza soluzioni. Le “pressioni” diventavano insostenibili e le minacce sempre più costanti: “Hai preso per il culo mio zio Antonio! Entro domenica mi devi dare i soldi e martedì se non mi vuoi dare i soldi devi stare chiuso!” intimava con tono minaccioso Alfonso Cicerone, determinato secondo l’accusa a passare alle vie di fatto e a “pestare” la vittima. Antonio Mancuso avrebbe poi preteso i cinquemila euro periodici quale affitto del locale (in realtà di proprietà della vittima dell’estorsione) ma anche tassi di interesse del 10% mensile sull’insoluto. Un incubo terminato con la denuncia ai Carabinieri che hanno registrato tutto e “liberato” il coraggioso imprenditore dalle perverse logiche della ‘ndrangheta.

Il collegio difensivo. Gli imputati sono difesi dai seguenti legali: Giuseppe Di Renzo, Francesco Capria, Antonio Barilari, Francesco Sabatino, Salvatore Campisi, Annamaria Modugno, Antonio Cosentino, Paride Scinica, Giuseppe Grande.

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