L’odissea di un testimone di giustizia vibonese: “Così lo Stato aiuta la ‘ndrangheta” (VIDEO)

L'incredibile storia di Michele Tramontana: dalla denuncia ai Mancuso alla fuoriuscita dal programma di protezione. Minacciato, sfrattato e abbandonato dalle Istituzioni

Ha denunciato i Mancuso di Limbadi ma adesso rischia di perdere tutto. Per colpa dello Stato. Prima “strozzato” dai clan, adesso minacciato, sfrattato, abbandonato dalle istituzioni, lasciato solo contro la ‘ndrangheta. La storia di Michele Tramontana, falegname italo-argentino originario di Rombiolo, è in realtà un’odissea senza fine. Con le sue dichiarazioni ha fatto scattare nel 2009 l’operazione denominata “Pinocchio” e sotto processo per usura sono quindi finite sei persone ritenute vicine al potente clan dei Mancuso di Limbadi e anche a quello di Lo Bianco di Vibo Valentia. Un processo che non è ancora terminato e sul quale pende la spada di Damocle della prescrizione.

Il coraggio di denunciare. Proprio oggi, 26 maggio 2020, dinnanzi al Tribunale di Vibo si è celebrata un’altra udienza e si è registrato un altro rinvio, al 7 luglio. Ordinaria amministrazione quando si ha a che fare con la giustizia a queste latitudini. Ciò che è ancor più anomalo, grave ed inaudito è quanto Michele Tramontana ha pubblicamente denunciato nello studio legale dell’avvocato Giovanni Fronte, che lo segue e ne sostiene la sua battaglia da anni. Per quasi un decennio il falegname di Rombiolo è stato sottoposto a programma di protezione e per questo motivo è stato costretto a lasciare la Calabria per vivere in una località segreta. Aveva una falegnameria che realizzava prodotti di qualità acquistati in passato anche da lord inglesi e, addirittura, dal pediatra del principe William. Una serie di vicissitudini lo hanno fatto finire nel giogo dell’usura. Ha avuto il coraggio di denunciare e di rialzarsi ma è ripartito da zero trasferendo altrove la sua famiglia e la sua attività imprenditoriale rimanendo costantemente nel mirino della ‘ndrangheta che ancora oggi recapita minacce di morte e lettere con proiettili.

Il braccio di ferro con il Viminale. Ad un certo punto, però, il Ministero dell’Interno ha deciso che Michele Tramontana non correva più rischi e che quindi doveva fuoriuscire dal programma di protezione. Eppure il processo scaturito dalle sue accuse è ancora in corso al Tribunale di Vibo e la stessa Procura distrettuale antimafia di Catanzaro ha chiarito che il testimone di giustizia deve continuare ad essere protetto perché “persona a rischio”. Di più: il Viminale gli aveva offerto un posto di lavoro a Milano ma la Dda era stata categorica: “Troppo pericoloso”. Pure quella è terra di ‘ndrangheta e i clan non hanno ancora dimenticato le denunce di Michele Tramontana. E’ lo Stato che sembra essersi dimenticato di lui tant’è che è ancora in corso un braccio di ferro con il Servizio centrale di protezione. Una prima sentenza al Tar del Lazio ha dato ragione al Viminale, ma il Consiglio di Stato ha ribaltato tutto e rimandato la “pratica” ad un’altra sezione del Tribunale amministrativo regionale con l’avvocato dello Stato che in pubblica udienza ha di fatto svelato la località protetta dove Tramontana vive con la famiglia. Un’odissea, l’ennesima, con nuovo epilogo giudiziario originato dall’inevitabile denuncia-querela presentata dall’avvocato Fronte per conto del suo assistito che, nel frattempo, continua a ricevere minacce. Nel luglio scorso un anonimo lo ha chiamato da una cabina telefonica di Vibo addirittura sul cellulare aziendale intimandogli di non tornare più in Tribunale. Quasi contemporaneamente il Ministero dell’Interno gli imponeva la fuoriuscita dal programma di protezione riuscendo, tra una pressione ed un’altra, a fargli sottoscrivere un accordo con il quale lo Stato si impegnava ad acquistare degli immobili siti a Rombiolo di proprietà dell’anziana madre e a saldare gli arretrati dovuti. Soldi che avrebbero permesso a Tramontana di riorganizzare una nuova vita in un’altra località riservata al di fuori del programma di protezione.

Scaricato dallo Stato. Il punto è che ad oggi le istituzioni quegli impegni non li ha onorati mentre l’emergenza Coronavirus ha fatto il resto mettendo in ginocchio l’attività imprenditoriale di famiglia. “Quindi io, testimone di giustizia che ha sempre rispettato le regole e la legge, che ho denunciato e messo la mia vita e quella dei miei familiari nelle mani dello Stato, oggi – ha sottolineato amaramente – vengo clamorosamente preso a calci nel sedere e cestinato come un ferro vecchio”. Il paradosso è che il testimone di giustizia il 30 giugno dovrà lasciare anche la casa dove vive con la famiglia. Al danno si aggiunge quindi pure la beffa: ingannato, lasciato solo e abbandonato da parte dello Stato. “Sto subendo – ha dichiarato – una delle ingiustizie più grandi che un onesto cittadino che ha denunciato la ‘ndrangheta può pensare di subire”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il rifiuto del Servizio centrale di protezione testimoni di giustizia di rinviare di qualche mese il trasferimento in un’altra abitazione. Un’istanza motivata anche dall’emergenza sanitaria in atto. Niente da fare. Lettera morta anche le diverse segnalazioni perché Tramontana ha davvero scritto a tutti: dal Presidente della Repubblica fino alla Commissione parlamentare antimafia. “Sono evidentemente tutti impegnati – ha affermato il testimone di giustizia – a celebrare i morti ma la lotta alla ‘ndrangheta si fa tutelando i vivi che hanno scelto da che parte stare. Dei morti bisogna ricordare l’adempimento del dovere che hanno compiuto”. Da qui l’accorato appello perché Tramontana non sa più dove bussare: “Mi rimane solo di consegnare alla stampa le mie denunce inascoltate. Quando lo Stato ci chiede fiducia fa solo pubblicità ingannevole perché stare dalla parte della legalità significa solo prendere calci in faccia mentre i criminali ci ridono alle spalle. Tutto ciò comporta – purtroppo – solo ed esclusivamente una sonora sconfitta dello Stato ed un segnale di vittoria della ‘ndrangheta”.

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