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STORIE | Giovanni Francesco Savaro, un napitino alla corte dei Gonzaga

Nato a Pizzo nel 1610, fu arguto scrittore, poeta ed oratore, l'imperatrice Eleonora lo accolse nella sua corte a Mantova, ma il suo carattere impulsivo e litigioso ne segnò la vita e la morte. Fu assassinato a Mileto nel 1682

Mantova

Il seicento in Calabria ha regalato grandi pensatori, scrittori, poeti e scienziati di cui ancora oggi si conosce poco, se non anche il nome. Questo è dovuto al fatto che i libri di storia sono confezionati al Nord e predisposti per una conoscenza prevalente delle cose che accadevano da Roma in su. Uno dei personaggi su cui ancora si è indagato poco e misconosciuto ai più è lo scrittore, oratore, poeta, docente di retorica, critico, umorista napitino che risponde al nome di Giovanni Francesco Savaro. Uomo di ingegno, colto, ma impulsivo ed irriverente, di innata litigiosità, che diviene Arcidiacono di Mileto, ma a cui la religione non fu certo prevalente negli studi e nelle applicazioni e nella disciplina dell’umiltà. Il suo temperamento ne determinerà la vita e la morte. Molto apprezzato dagli eruditi del seicento, tranne quelli cui non risparmia aspre stilettate di sarcasmo, il Savaro deve la sua salvezza e la sua fortuna all’accoglienza benevola nella corte dei Gonzaga, di cui diviene fedele cappellano.

La biografia. Figlio di Francesco, padrone di una imbarcazione e marinaio, come recitano i suoi biografi, Giovanni Francesco nasce a Pizzo tra il 1610 e il 1620. A Pizzo e Mileto, Giovanni studia con passione italiano e latino, e ben presto abbraccia la carriera ecclesiastica. Della sua vita calabrese si sa ben poco, come della sua presenza presso la cattedrale di Mileto, dove viene nominato Arcidiacono vicario, titolo che usa in ogni suo scritto o presentazione, anche dopo che viene dichiarato decaduto dall’incarico. Il Savaro non è un tipo che calamita simpatie. La sua arguzia e abilità a verseggiare con sarcasmo non risparmia neanche i suoi concittadini. Nel 1640 compone “La nobiltà del Pizzo”, in cui passa in rassegna tutti i cosiddetti nobili, mettendone a nudo la reale condizione con sagace canzonatura:“Quì dunque son di nobile genia / Molti casati delli quali or canto / Se pur zoppa non è la musa mia./ Viveasi già confusamente intanto / Tra nobili, plebei, e popolani, / Nè distinguean fra lor tanto, nè quanto./ Ma assaliti da pensieri insani / Scrissero a Sua Eccellenza acciocchè fosse / La nobiltà distinta dai villani”.
Nello stesso anno diviene Arcidiacono. Pochi mesi dopo litiga aspramente con il vescovo di Nicastro, Giovanni Tommaso Perrone, motivo per cui, per ordine del vescovo di Mileto, Gregorio Panzani, viene incarcerato nel castello di Pizzo e giudicato dal Tribunale Ecclesiatico, condannato ed in seguito trasferito in un carcere di Roma.

Gli anni romani. Liberato, rimane nella città Eterna. Qui prosegue i suoi studi e viene ascritto all’Accademia degli Umoristi, di cui fanno parte tanti notabili ed anche papa Clemente VIII. Il suo soggiorno a Roma non dura a lungo. Portato alla satira eccessiva, Savaro pronunzia spesso un severo giudizio delle cose altrui. E così sembra accada con Girolamo Garopoli, di Corigliano, altro calabrese trapiantato a Roma, segretario di Filippo Colonna e gran connestabile del Regno di Napoli, cui il Savaro, in forma anonima, stronca la sua opera più famosa, “Carlo Magno, o vero la chiesa vendicata”, poema eroico dedicato a Re Luigi XIV. Il libello a lui attribuito è “Censura del Carlo Magno, poema di Girolamo Garopoli”, opera a noi non pervenuta, risulta pertanto difficile darne un giudizio sulla sua mano o meno nella stesura del testo. Al Savaro l’attribuiscono alcuni biografi e il nostro Capialbi. In realtà il Crescimbeni ipotizza che l’autore della Censura possa essere lo stesso Garopoli, in cerca di notorietà, forse anche coadiuvato dal Savaro. Resta il fatto che lo scrittore napitino nello stesso periodo pubblica ben due sonetti in lode del Carlo Magno, e questo potrebbe scagionarlo dalle accuse.
Il Savaro firma sempre le sue opere, e lo fa anche quando critica aspramente il poeta Giovan Battista Gherardelli, dando alle stampe nel 1655 il “Partenio, libro contenente più dialoghi in confutazione della Difesa di G. Batt. Gherardelli” che avendo pubblicato nel 1653 la sua tragedia in prosa Il Costantino, sulla scia delle violente polemiche divampate intorno ad essa e ricollegabili ad annosi contrasti personali, interni all’Accademia degli Umoristi, viene censurato da monsignor Agostino Favoriti, da cui si difende con abilità. Il Gherardelli non risponde affatto al Savaro anche perché a prendere le sue parti c’è anche Salvator Rosa, pittore e poeta napoletano di grande notorietà. E’ questa la goccia che fa traboccare, ancora una volta, il vaso della sopportazione e che costringe, viste le forti aderenze altolocate del Gherardelli, Savaro ad un nuovo trasloco, questa volta in direzione Bologna.

A Bologna. Nella città felsinea ottiene la cattedra di Retorica all’Università e diviene amico del celebre anatomista e scienziato Marcello Malpighi, cui indirizzerà una lettera di lode della sua città natale “degna di essere scoperta”, “Epistola ad Marcellum Malpicum Bononiensem de his quae Napitiae (Pizzo) visu, observatuque digua reperiuntur”,
A Bologna inizia una produzione letteraria notevole, riscuotendo elogi ed apprezzamenti, ma intollerante ed instabile si trasferisce dopo pochi anni a Mantova. Qui viene benignamente accolto dai Gonzaga che divengono suoi mecenate e protettori. In particolare il Savaro conquista le simpatie dell’imperatrice Eleonora, già vedova di Ferdinando III d’Asburgo. Ad Eleonora dedica la sua commedia “Il Druso, ovvero il tradimento punito”. Per ringraziarlo l’imperatrice gli fa dono di una collana con medaglione d’oro con impressa la sua effige, con diploma di potersene servire anche nelle pubbliche cerimonie. Nel 1666 per le nozze di Leopoldo e Margherita Teresa d’Austria, il Savaro scrive un epitalamio, Giove Conciliatore; ed un suo Oratorio in musica, Il Zelante difeso, una sorta d’opera d’antan, viene rappresentata a Mantova il 13 gennaio 1672, nel palazzo del duca Carlo Gonzaga.
Alcune delle sue opere che vanno in stampa sono: Compendio della guerra fatta in Italia dal Cardinale Albernozzo, reso dal latino in volgare, i romanzi Filandro, Poliante, Bomanzo, e poi le commedie Amore non ha legge, Il matrimonio per inganno. Il rubello per amore. Frothone, o il finto femina, le tragedie Anna Bolena, L’onorato imprudente, Maria Stuarda, ll Crispo, Emiddio, nonché i libretti per musica tra cui il Sisara, oratorio recitato nella Cappella maggiore del Palazzo pubblico di Bologna la sera del 17 marzo 1667, con musica di Maurizio Crucciati.

Il ritorno in Calabria. Nel 1672 il Savaro decide di rientrare in Calabria e grazie ai buoni uffici della Corte di Mantova, riottiene l’incarico di Arcidiacono nella Cattedrale di Mileto. Trascorre appena un decennio in tranquillità, dedicandosi alle cose di chiesa, in cui dimostra la sua preparazione. A Mileto, in una quieta notte del 1682, viene assassinato con numerose coltellate, in circostanze rimaste misteriose. Il suo sicario non verrà mai scoperto, anche perché la matrice del delitto potrebbe essere maturata nell’ambiente ecclesiastico.
Vito Capialbi, parlando della sua morte, la attribuisce a conseguenza della sua indole spigolosa: «il suo carattere sostenuto, vanaglorioso, sprezzante, ed amatore di brighe, per le quali facilmente trascorreva in motteggi, il rese odioso all’istesso Prelato”. Intendendo per prelato il vescovo del tempo nella diocesi miletese che era il milanese Ottavio Pallavicino.
Forse le sue opere non sono di grande lode, ma la sua copiosa produzione, anche per l’epoca in cui visse, lo rende degno di essere conosciuto, passando oltre a quella sua personalità che lo rese inviso anche nella sua città natale, dove occorrerebbe per lui una maggiore attenzione.

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