Economia & società

Quei testimoni semplici che sono la prova più vera della santità di Natuzza Evolo

Le parole di chi ha conosciuto la mistica sin da quando era bambina riprese dal libro di Vincenzo Varone "Sotto il cielo di Paravati"

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Ogni tanto durante la mia adolescenza – trascorsa a Paravati con i miei genitori e per alcuni anni a Mileto sul Corso Umberto – in una casa che al tempo della guerra infame venne colpita dalla scheggia di una bomba e di cui per lungo tempo è rimasta traccia – insieme a nonno Peppino e alle zie Maria, Rosa e Tita – andavo anche ad “interrogare”  donna Apollonia  che riposava costantemente nel suo letto di inferma in una stanza disadorna di una casa colonica nella quale si era trasferita, dopo avere abitato  in un modesto fabbricato proprio a fianco dell’abitazione di Natuzza. Si tratta dello stesso posto dove è poi sorta la storica cappella dove la mistica ha ricevuto per anni centinaia di migliaia di persone in cerca di ristoro e di pace.  Quello che rammento è che il locale per la cappella  era stato acquistato  giusto qualche anno prima dai coniugi Giampà, devotissimi di Natuzza, due persone austere e di poche parole, in particolare il professore Libero, alto, robusto e con i baffi. I Giampà raggiungevano puntualmente Paravati da Catanzaro, dove abitavano, almeno due volte alla settimana, a bordo di una vecchia Giulietta di colore marrone, talmente lucida e pulita da sembrare ad un primo sommario sguardo nuova di zecca.

Donna Apollonia, profondamente segnata nel fisico da una malattia perenne, ma che morì,se la memoria non mi inganna,  di vecchiaia quando io ero ancora ragazzo ma con il “piglio” curioso di chi voleva sapere e capire,durante gli “interrogati” , ai quali si sottoponeva volentieri, mi raccontava della presenza costante dei defunti  che “popolavano le campagne circostanti la zona di Santa Venere alla ricerca di frutti maturi, soprattutto “arance martise”  e nespole zuccherose, da mettere davanti alle case dei loro parenti bisognosi”. Subito dopo, assalita dai vecchi ricordi, mi citava per nome e cognome quanti negli anni passati se ne erano andati per “il tifo, la scarlattina, un improvviso dolore al petto,un appendicite improvvisa” e finanche,come nel caso di un giovane di buona famiglia, “per troppo amore non ricambiato”. Nella stanza a farle compagnia c’erano appese al muro  le immagini di Santa Caterina da Siena e di Sant’Antonio Abate. Sopra al comodino, vicino al suo letto, una specie di bomboniera dai colori sgargianti, il libretto delle preghiere con un santino che fungeva da segnalibro e, in bella mostra,  la  foto di una ragazza ben vestita e dall’aria maliziosa.

Una volta in quella stanza umida e dai muri screpolati vidi anche due lucertole quasi incuranti della mia presenza, forse, perchè abituate all’ambiente.  Apollonia in quella circostanza,notò subito il mio imbarazzo e  mi disse con tono fermo e deciso  che  “ quegli animaletti non bisognava guardarle con disgusto  perché anche loro  erano creature di Dio”.  Non l’ho mai dimenticato.

A proposito di Santa Venere occorre dire che nel frattempo si è popolata di abitazioni costruite soprattutto dagli emigrati dopo anni di sacrifici  e di duro lavoro in Germania, in Svizzera e nella Milano che solo qualche anno dopo sarebbe diventata “da bere”. Tali costruzioni negli Sessanta e Settanta, come da abitudine consolidata più che da tradizione,  venivano poi lasciate dai genitori regolarmente in dote alle figlie femmine insieme al corredo, alla camice da notte  e alle pentole per la cucina. Ma per me la località in questione  era e  continua ad essere ancora oggi il luogo degli spiriti buoni

Per completezza su quanto appena detto aggiungo  che  Apollonia, la quale sembrava un personaggio uscito da un romanzo di Giovanni Verga, non accennò mai in mia presenza direttamente al mistero di Paravati ma soleva ripetermi, quasi a voler giustificare qualche suo colpevole dubbio legato al passato giovanile che  “Natuzza era sempre stata una ragazzina di una bontà infinita che faceva tenerezza”. Ed anche la signorina Maria Colloca, che ricordo con il rosario sempre tra le mani  sotto le palme della sua casa bianca –  sorella del noto pittore di affreschi all’interno delle chiese della zona e non solo Eugenio Colloca che aveva sposato una simpatica signora romana di nome Matilde – e “zia” Carmela, moglie di mastro Angiolino Saccà, originario di Pizzinni di Filandari, uno dei migliori  artigiani di quegli anni, mi parlavano spesso di Natuzza.

“La sua bontà – mi ripetevano – veniva dal cuore degli umili e dei semplici”. E poi mi raccontavano con linguaggio lento e puntuale delle “anime dei defunti con cui parlava, dell’Angelo custode,sempre vicino a noi” e delle “tante sofferenze” che da giovane Fortunata aveva dovuto patire  “per colpa della miseria e  delle malelingue, senza però mai lamentarsi e imprecare nei confronti di nessuno”. Mi dicevano anche  che “Natuzza era comprensiva con tutti, finanche con quelli che non lo meritavano”.

Un’altra testimonianza è quella di “zia” Caterina Dimasi, che abitava proprio di  fronte casa mia, compagna graditissima e inseparabile delle nostre serate in famiglia, morta quasi novantenne,  moglie di Nino Valente, contadino dal sorriso mai stanco e soprattutto abile riparatore di biciclette,deceduto all’improvviso per “un male al cuore”.

“Zia” Caterina mi confidò che negli anni dell’adolescenza, “quando a Paravati si soffriva la fame e  il freddo gelido che proveniva  dalle montagne delle Serre e del Poro  e tanti morivano di febbre improvvisa, Natuzza era sempre pronta a dare una mano a tutti”. Mi riferì in particolare  di quella volta che  “ all’uscita dalla Messa che si era appena celebrata nella chiesa di Santa Maria degli Angeli – nostra madre e  protettrice – avendo la giovane Fortunata notato lungo il tragitto una creatura piangere per la fame, una volta rientrata a casa, prese quel poco che c’era nella credenza e lo diede alla piccoletta che non mangiava da due giorni”.

Ne sono  più che certo. Furono proprio questi nella Paravati  di quel tempo aspro, dove le liti si risolvevano spesso con il coltello e il problema della fame con  le ghiande riservate ai maiali, i  primi segni di un vita già protesa verso il bene.

Così descriveva questi luoghi privi di tutto  nella prima metà del secolo scorso, nel volume “Arabi e beduini d’Italia”, il parroco-poeta   di Comparni con il “vizio” della analisi storiche, sociologiche e politiche  don Lorenzo Galasso, originario di Nicotera, di cui mi ha spesso parlato con ammirazione il pronipote Guglielmo, di cognome anche lui Galasso. “A Nord- Est in su, ma molto più vicino  -scriveva don Lorenzo – si affaccia meditabondo Paravati”. Una fetta di terra  pensosa ma anche  derelitta, scelta,forse proprio per questo da Dio per far sentire al mondo la sua presenza che si concretizza nei luoghi dimenticati.

Una scelta, dunque, divina dettata dal posto,schiavizzato dalle mille ingiustizie della storia come sempre fatta dagli uomini che sapevano leggere, scrivere e barare,ma soprattutto dalla presenza di una ragazzina analfabeta, di nome Fortunata, segnata dalla grazia che nasce dalla fede dei giusti. Un segnale forte e chiaro,proveniente dal cielo, per proteggere il mondo dal male degli stolti da sempre in corsa per ottenere potere,  ricchezza, riverenza, inchini e popoli da dominare.

 

 

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