Cronaca

ESCLUSIVO/’Ndrangheta: nuove accuse contro clan Mancuso

La consorteria mafiosa del Vibonese dietro la più grande piantagione di marjuana mai scoperta in Italia negli ultimi 20 anni. Il pentito Arcangelo Furfaro continua a “cantare” e svela particolari pure sulla latitanza del boss Pantaleone Mancuso

di GIUSEPPE BAGLIVO

E’ un “fiume in piena” Arcangelo Furfaro, 46 anni, il nuovo pentito di ‘ndrangheta vicino al clan Molè di Gioia Tauro che, dopo aver raccontato fatti e misfatti su omicidi, traffici di droga, armi ed estorsioni con protagonisti i clan Molè e Piromalli, è passato a raccontare al pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo, tutto ciò di sua conoscenza sul clan Mancuso di Limbadi e Nicotera, la più importante organizzazione mafiosa del Vibonese e fra le principali cosche dell’intera ‘ndrangheta calabrese.

Marijuana a Roma

Se le prime dichiarazioni di Arcangelo Furfaro hanno permesso agli inquirenti di gettare un “fascio di luce” su uno degli omicidi più eclatanti compiuti nel Vibonese ed ancora rimasto impunito (quello del broker della cocaina Domenico Campisi di cui Zoom24.it ha rivelato il 19 novembre scorso in esclusiva tutti i retroscena per come raccontati da Furfaro ai magistrati, LEGGI QUI), le nuove dichiarazioni svelano scenari inediti su una delle più ingenti piantagioni di marijuana mai scoperte negli ultimi 20 anni in Italia: quella da quasi 100 mila piante di canapa indiana rinvenuta nell’agosto del 2013 dai poliziotti del Reparto Volanti della Questura di Roma in via Lunano, nella zona “Casilino” della capitale. All’epoca, la polizia riuscì a sequestrare ben 47 tonnellate di piante di marijuana, più altri 54 chili di cannabis già essiccata e pronta per essere spacciata. L’estensione dell’illecita piantagione – secondo le stime fatte dalla polizia – arrivava a coprire oltre tre ettari e mezzo di terreno. Nell’occasione, oltre alla marijuana, venne sequestrato anche l’intero fondo agricolo, un casale, un capannone e tutto il materiale necessario per l’irrigazione della marijuana, più teloni termici utilizzati per favorire la vegetazione delle piantine da trapiantare, diverse filari per l’essiccazione, molti trita-erba, buste in plastica, bilance ed un macchinario per il confezionamento della cannabis. Il “principio attivo” ricavabile dallo stupefacente rinvenuto, secondo gli inquirenti, ammontava ad oltre 600 chili di droga.

Gli arresti. Per tale illecita maxi-piantagione di marijuana la polizia della Questura di Roma nel 2013 ha tratto in arresto Domenico e Giovanni Burzì, padre e figlio, di 47 e 24 anni, entrambi di Joppolo, nel Vibonese, ed i fratelli Pantaleone e Francesco Lentini, di 24 e 22 anni, di Limbadi, sempre in provincia di Vibo Valentia. In primo grado i quattro sono stati condannati con rito abbreviato (che ha comportato uno sconto di pena pari ad un terzo) a 5 anni di reclusione ciascuno, mentre in appello la pena è stata ridotta a 3 anni di carcere a testa.

Arcangelo Furfaro

Le rivelazioni inedite del pentito Furfaro. Ma chi e cosa si sarebbe mosso dietro tale ingente piantagione di marijuana? A spiegarlo chiaramente, e per la prima volta, alla Dda di Catanzaro è il collaboratore di giustizia Arcangelo Furfaro. “La vastissima coltivazione di marijuana a Roma – fa mettere a verbale il pentito – era curata da Giovanni Burzì, che noi chiamavamo Giovannino,  e dal padre Domenico Burzì, ma tutta l’illecita coltivazione la gestivano sempre per conto di Pantaleone Mancuso, detto l’ Ingegnere”. Una parte dei guadagni, secondo Furfaro, sarebbe così andata anche a Giuseppe Mancuso, figlio del boss Pantaleone, ed a Domenic Signoretta di Jonadi, il coinquilino di Furfaro a Roma ma, soprattutto, colui che viene ritenuto come l’uomo “di maggior fiducia” del boss di Nicotera e Limbadi, ovvero Pantaleone Mancuso. “Domenic Signoretta – spiega al pm il collaboratore di giustizia – mi disse che si trattava di migliaia e migliaia di piante di marijuana, infatti aggiunse che mi avrebbe regalato mille chili dopo la raccolta. Domenic Signoretta mi disse anche che la piantagione romana era talmente vasta che passava sotto un ponte o una galleria. Ciò accadeva nel 2012” .

porto Gioia Tauro

Il proposito di far arrivare cocaina nel porto di Gioia Tauro. Non solo la marijuana, ma anche la cocaina, stando alle rivelazioni di Furfaro, sarebbe stata nei “pensieri” di Pantaleone Mancuso, alias “l’Ingegnere” (allo stato comunque non raggiunto da provvedimenti con contestazioni inerenti gli stupefacenti). Pantaleone Mancuso, detto l’ingegnere – rivela il collaboratore – sapeva che io ero stato per nove mesi in Colombia e Venezuela e per questo motivo voleva propormi di fare dei trasporti di cocaina da lì, dicendomi che lui aveva i contatti giusti per tirar fuori lo stupefacente una volta giunto nel porto di Gioia Tauro. Mi disse tutto ciò nel primo semestre del 2011 quando ci siamo incontrati in un uliveto di Limbadi. Non ho però mai aderito alla proposta di Pantaleone Mancuso poiché loro, i Mancuso, erano storicamente legati ai Piromalli di Gioia Tauro con i quali io non avevo un buon rapporto poichè ero legato ai Molè, percui non volevo sapessero che facevo attività dove si guadagnavano molti soldi”.

“Cicciu u pecuraru”. Se il broker della cocaina Domenico Campisi, stando al racconto di Furfaro, avrebbe falsamente risposto al gruppo di Pantaleone Mancuso di non avere cocaina “per le mani” e di non poterli perciò rifornire (questa la motivazione che avrebbe indotto “l’Ingegnere” a far eliminare Campisi), il clan del boss di Nicotera si sarebbe negli anni rifornito di polvere bianca sfruttando un altro canale ed un altro “personaggio” di Limbadi che gli inquirenti stanno cercando di identificare compiutamente. Spiega sul punto il pentito Arcangelo Furfaro: “Domenic Signoretta si è rifornito di cocaina nel 2011 e nel 2012, prima dell’omicidio Campisi, anche da un tale soprannominato “Cicciu u pecuraru”, che ha sui 50-52 anni. Una volta siamo andati io e Domenic Signoretta con un furgone preso a noleggio sulla Prenestina a Roma e guidato dallo stesso Domenic. Abbiamo consegnato a Cicciu u Pecuraru 60-70 chili di marijuana che noi abbiamo pagato 1.300 euro al chilo e l’abbiamo ceduta a lui a 1.650 euro al chilo”.

Mancuso estradato

La latitanza di Pantaleone Mancuso. Particolari inediti il pentito Furfaro svela infine sulla latitanza di Pantaleone Mancuso, detto “l’Ingegnere”, 53 anni, poi catturato nell’agosto 2014 in Argentina mentre stava tentando di attraversare con un pulman il confine con il Brasile portando con sè documenti falsi ed un borsone con 100 mila euro in contanti. Inseguito da un mandato di cattura per il tentato omicidio di sua zia e di suo cugino, vale a dire Romana Mancuso e Giovanni Rizzo (fatto di sangue avvenuto a Nicotera il 26 maggio 2008), Pantaleone Mancuso prima di raggiungere il Sud America avrebbe trascorso parte della latitanza nel Vibonese. “Domenic Signoretta portava le imbasciate di Mancuso – spiega Furfaro – durante la sua latitanza nel Vibonese. Domenic era l’unico che sapeva dove si trovava il nascondiglio. Pantaleone Mancuso era latitante per un tentato omicidio di una parente. Domenic mi disse che l’Ingegnere si era fottuto per un bollo o un’assicurazione in quanto gli inquirenti trovarono a terra un contrassegno di un’assicurazione o di un bollo che li riconduceva alla sua autovettura”. Frammenti del tagliando dell’assicurazione e del bollo dell’auto rinvenuti sul luogo del tentato omicidio di Romana Mancuso e Giovanni Rizzo e che, effettivamente, portarono gli investigatori all’auto di Pantaleone Mancuso. Elementi non bastati però a far condannare Pantaleone Mancuso ed il figlio Giuseppe per il duplice tentato omicidio della zia e del cugino, tanto che entrambi per tale fatto di sangue sono stati di recente assolti. La Dda di Catanzaro avverso tale verdetto ha tuttavia preannunciato ricorso in Appello ed a dare una “mano” all’impalcatura accusatoria potrebbero esserci questa volta pure le dichiarazioni del nuovo pentito di ‘ndrangheta Arcangelo Furfaro.

‘Ndrangheta, nuovo pentito contro clan Mancuso (LEGGI QUI)