C'è anche Giuseppe Salvatore Mancuso, figlio del boss Pantaleone, detto l'ingegnere, tra le nove persone condannate dal Tribunale di Palmi nell'ambito del processo scaturito dall'operazione "Mediterrano" che vedeva imputati capi e gregari della cosca Molè di Gioia Tauro. Il giovane rampollo della famiglia Mancuso è stato condannato a undici anni e sei mesi di reclusione. Nei suoi confronti il pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria Roberto Di Palma aveva chiesto una condanna a 18 anni.
Le accuse ai vibonesi. Per gli inquirenti Giuseppe Salvatore Mancuso, con altri imputati già giudicati con il rito abbreviato, sarebbe stato a capo una organizzazione di di narcotrafficanti legati al potente clan di Limbadi che avrebbe rivenduto cocaina e hashisch al clan Molè di Gioia Tauro. Nel processo che si è celebrato in primo grado davanti al collegio del Tribunale di Palmi era imputato un altro vibonese, Claudio Ruffa di Rombiolo condannato a due anni e nove mesi di reclusione. Nei suoi confronti il pm aveva chiesto 5 anni e 5mila euro di multa. Ruffa era accusato della vendita di due fucili a alcuni esponenti della cosca Molè. La cessione delle armi sarebbe avvenuta nel Vibonese.
Nove condanne e quattro assoluzioni. Nel dettaglio, il Collegio presieduto da Gianfranco Grillone ha condannato Girolamo Molè a 4 anni di reclusione, riconoscendo la continuazione con una precedente condanna; Giuseppe Galluccio a 9 anni e 6 mesi; Claudio Ruffa a 2 anni e 9 mesi; Giuseppe Salvatore Mancuso a 11 anni e 6 mesi; Manolo Sammarco a 11 anni e 3 mesi; Enrico Galassi a 5 anni e 3 mesi; Carmelo Bonfiglio a 2 anni e 6 mesi; Alessio Mocci a 10 mesi (pena sospesa e non menzione); Mirko Di Marco a un anno e 3 mesi. Il Tribunale ha invece assolto Maria Teresa Tripodi, Massimo Modaffari, Claudio Celano e Ferdinando Vinci.
Droga e slot machine. L’indagine, dunque, ha svelato l’attività di narcotraffico del clan, attraverso la quale i Molè sarebbero riusciti ad assicurarsi un regolare flusso di ingenti quantitativi di hashish e cocaina in entrata sulla Capitale, sfruttando tre direttrici di approvvigionamento e il ricorso a una strutturata rete di partecipi, sia italiani, che stranieri. Centro propulsore delle attività restava comunque la Piana, dove operavano i vertici del clan, mentre a Roma avveniva la distribuzione. Alle partite in arrivo dalla Calabria, si aggiungevano quelle in arrivo attraverso l’asse Marocco-Spagna-Francia. Al contempo, grazie al supporto fornito da radicata componente albanese, la cosca gestiva lo stoccaggio e lo smistamento dei carichi di cocaina, introdotti dai Balcani sul territorio nazionale.
Nella foto il tribunale di Palmi e il pm antimafia Roberto Di Palma