Cronaca

Bimba nata morta al Pugliese, la Cassazione mette la parola fine al caso. Assoluzioni confermate

ospedale-pugliese-catanzaro-600x400.jpg

La Suprema corte ha bocciato il ricorso della Procura generale di Catanzaro. Non ci sarà alcuno appello bis

di GABRIELLA PASSARIELLO

La Corte di cassazione ha messo la parola fine sul caso giudiziario della piccola Beatrice, la bimba nata morta all’ospedale Pugliese- Ciaccio di Catanzaro, soffocata da quel liquido amniotico che per mesi l’aveva nutrita e protetta. Non ci sarà nessun appello bis, né la possibilità che un verdetto di assoluzione possa essere ribaltato in condanna. La Cassazione ha accolto le richieste degli avvocati difensori degli imputati, rappresentati davanti ai giudici di ultima istanza, dai legali Wanda Bitonte, Enzo Ioppoli e Aldo Casalinuovo, che ieri hanno invocato la conferma della sentenza di secondo grado  emessa il 14 novembre 2016. La Suprema corte ha, quindi, avvalorato la decisione emessa dai giudici di Appello di Catanzaro, che ritenendo inammissibile l’appello proposto dalla Procura generale, ha di fatto confermato l’assoluzione dei medici Maria Talarico, Ines Pileggi, lo specializzando Enrico De Trana  e l’ostetrica Irene Mancini, giudicati con rito abbreviato, assoluzione decretata dal gup Abigail Mellace il 9 luglio 2015 con formula ampia “perché il fatto non sussiste”, facendo crollare le accuse, a vario titolo di falso e omicidio colposo.

Le perizie. Il gup  aveva convocato i professori Bresadola e Maurizio Saliva specialista in medicina legale a Napoli, che avevano fornito due diversi esiti peritali, dando ragione alla fine alle conclusioni di  Saliva che aveva rilevato la presenza di un trombo nel cordone ombellicale. “Un episodio asfittico acuto” sarebbe stata la causa del decesso della neonata, lasciando intendere che si sia trattata di una morte dovuta a cause naturali. Un’altra perizia, quella  di Bresadola  arrivava a conclusioni opposte: “la piccola sarebbe ancora viva, se solo i sanitari non avessero sospeso ogni forma di controllo sul benessere fetale durante tutto il periodo espulsivo”. Una diversa condotta medica realizzata mediante «l’attenta valutazione dei tracciati cardiotocografici, l’esecuzione di un monitoraggio continuo in sala parto, il tempestivo intervento mediante parto cesareo, avrebbe prevenuto la grave asfissia intrapartum che ha condotto alla morte di un feto sano”, di quella piccola, che sul letto dell’obitorio indossava  una tutina in ciniglia di colore bianco, un braccialetto identificativo al polso sinistro, un body in cotone bianco e rosa, un paio di calzini di colore bianco e una camicia smanicata di seta rossa. Così come le note integrative del consulente nominato dalla Procura Pietro Antonio Ricci, ordinario di medicina legale all’università Magna Grecia di Catanzaro e la perizia del compianto professore Ancheschi, andavano nella stessa direzione: “i sanitari non avrebbero effettuato un attento monitoraggio con la registrazione meticolosa del battito cardiaco fetale attraverso i tracciati e non avrebbero proceduto tempestivamente al parto cesareo”.

Appello inammissibile. Davanti ai giudici della Corte di appello di Catanzaro il merito del processo non si è mai discusso, stroncato da vizi di forma, per gli Ermellini invalicabili. Il ricorso della Procura generale, per i giudici di appello, era tardivo e in quanto tale inammissibile. L’atto risultava depositato nell’ultimo giorno utile, ma in un orario successivo al pubblico nella cancelleria dell’Ufficio gip- gup. A nulla è valso eccepire che “ il passaggio dell’atto dalla segreteria della Procura generale appellante alla cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza- come scritto nel ricorso a firma del pg Carlo Alessandro Modestino- è dettato dalla prassi”, perché ciò che conta, secondo la Procura generale, “è il deposito dello stesso nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato”. La Cassazione ha dato ragione alla difesa, nel momento in cui ha provato che l’atto è stato trasmesso  con apposita lettera di trasmissione e non depositato personalmente. Rimane, però un’ombra, un alone di mistero su chi abbia apposto in calce all’atto di appello, trasmesso all’ufficio gip- gup, un timbro riportante una data sbagliata (18 febbraio 2016 anziché 18 gennaio 2016, data di effettivo deposito) corredato da un’annotazione  a penna recante l’orario, senza essere controfirmata.  

L’inchiesta. Si chiuse quindi un procedimento che  si è svolto per due anni nelle forme previste dall’incidente probatorio. Una storia drammatica che ha avuto inizio il 5 dicembre 2011 con il ricovero della donna, poi sottoposta a un parto pilotato, e  che era conclusa sei giorni dopo, quando la signora  aveva dato alla luce la bambina oramai deceduta. Secondo quanto denunciato dalla coppia all’epoca dei fatti 35enni, la puerpera, sino a poche ore prima del parto, non avrebbe lamentato alcun problema, e proprio questo aveva indotto i due genitori di Cropani a presentare una denuncia chiedendo che si verificassero eventuali negligenze, omissioni, imperizie di tipo medico – sanitarie. Da qui l’apertura di un’inchiesta, l’immediato sequestro della documentazione sanitaria relativa al parto e l’iscrizione nel registro degli indagati dei camici bianchi con le accuse di falso per presunta alterazione della cartella clinica e omicidio colposo. Accuse oggi definitivamente crollate.

Più informazioni