Cronaca

Clan Alvaro, l’ex sindaco racconta le intimidazioni dei re della montagna

Domenico Luppino, ex sindaco e famoso proprietario terriero, “spiega” il sistema di sopraffazione del cosca Alvaro di Sinopoli per accaparrarsi le terre e assoggettare il territorio

di FRANCESCO ALTOMONTE

C’è tutto il campionario di sopraffazioni mafiose nella testimonianza che Domenico Luppino ha reso davanti al collegio del Tribunale di Palmi, nella mattinata di ieri. L’ex sindaco di Sinopoli, importante proprietario terriero della Piana di Gioia Tauro, è stato chiamato dal pm della Dda di Reggio Calabria Giulia Pantano a dare voce e sostanza alle accuse che l’ufficio di procura reggino sta sostenendo in aula nei confronti degli imputati Antonio e Nicola Alvaro e Natale Curtì. I tre sinopolesi sono accusati di associazione mafiosa e estorsione aggravata dalle modalità mafiose. Nel racconto offerto da Luppino è emerso, come detto, come la cosca degli Alvaro, una delle più potenti e antiche dinastie di ‘ndrangheta calabrese, tengano in pugno l’economia della zona aspromontana attraverso l’applicazione sistematica della guardiania come controllo ferreo del territorio, l’estorsione camuffata da “protezione” che, in alcuni casi, si tramutava in accaparramento del fondo agricolo da parte della cosca.

Intimidazioni, bombe e pistolettate Quella della famiglia Luppino è una storia contrassegnata dal tentativo di difendersi dalle protervia del clan Alvaro, dando e negando, un difficile esercizio di equilibrismo che consentisse ai proprietari terrieri di poter vivere e lavorare senza incorrere nella vendetta della cosca. Domenico Luppino ha raccontato dello stillicidio di atti intimidatori perpetrati nel corso degli anni sulle proprietà della sua famiglia, fin dall’inizio degli anni ’70. Intimidazioni sconfinate nella gambizzazione di uno zio di Domenico Luppino , un sequestro di persona, una bomba nella cappella di famiglia e spari contro la casa del padre dell’ex sindaco. “Le loro richieste – dichiara Luppino in aula – alle volte erano esplicite, come quella volta che Carmine Alvaro chiese dei soldi a mio padre, o venivano fatte sotto forma di favori, come la richiesta di guardiania che mio padre pagò” in maniera indiretta “per due anni a Domenico Alvaro”. Luppino ha raccontato che a ogni diniego, seguiva in atto intimidatorio, come i danneggiamenti e l’incendio di uliveti nelle sue proprietà. “Non mi hanno mai chiesto di vendere – spiega Luppino – perché il tempo gioca dalla loro parte. Pensano che prima o poi quelle terre saranno le loro, come è già successo in passato per esempio con i fondi dei Capua passati poi agli Alvaro”·

L’inchiesta Su questo punto verte parte dell’inchiesta della Dda scattata nel 2015, vale a dire la “spoliazione” della proprietà ai danni dei proprietari, costretti a vendere i propri fondi a prezzi notevolmente inferiori a quelli di mercato. “Alcuni hanno fa – racconto Luppino – avevo deciso di vendere un pezzo di terra a una signora di Sinopoli, dopo avere pagato la donna ritornò per chiedermi di riavere indietro i soldi perché mi disse che “non viveva più” che era stata “invitata” a restituire il terreno, la stavano minacciando”. L’invito, secondo quanto detto dall’ex sindaco, sotto scorta per tre anni, era stato fatto da suo cognato Giuseppe Palamara, legato agli Alvaro.

L’incontro con il boss latitane Luppino ha raccontato, in particolare, di una grave intimidazione subita dalla sua famiglia, vale a dire alcuni colpi di pistola sparati contro la casa dei suoi genitori mentre gli anziani stavano dormendo. «Qualche giorno dopo – dice Luppino – mio cognato Palamara mi disse che Cosimo Alvaro, all’epoca latitante, mi voleva parlare. Lo incontrai e mi disse che quello che era successo sarebbe stata opera di alcuni membri della sua famiglia che difficili da gestire. Alla fine mi chiese se volevo essere suo socio nella costruzione di un opificio che avremmo dovuto costruire nei miei terreni». Le tre ore di testimonianza di Luppino si sono concluse con il controesame dei legali degli imputati, gli avvocati Antonio Attinà, Carlo Monaco, Francesco Calabrese e Mario Nigro, che hanno tentato di fare emergere alcune incongruenze nel racconto del testimone.