Cronaca

Omicidio Di Leo, chiesto l’ergastolo per il presunto killer

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Ad incastrare Francesco Fortuna dei guanti di lattiche che comparati con il suo dna hanno consentito ad inquirenti ed investigatori di fare quadrato su un efferato delitto

di GABRIELLA PASSARIELLO

Al termine della requisitoria il pm della distrettuale Camillo Falvo ha chiesto il carcere a vita per Francesco Fortuna,  37enne di Sant’Onofrio, giudicato con rito abbreviato ritenuto esponente di spicco della cosca di ‘ndrangheta dei Bonavota, accusato di essere uno dei killer dell’omicidio di Domenico Di Leo, detto Micu ‘i Catalanu, ucciso  a colpi di pistola,  Kalashnikov e fucile tra l’11 e il 12 luglio 2004. Il gup Antonio Battaglia ha aggiornato l’udienza al prossimo 7 luglio per dare inizio alle arringhe difensive.


L'inchiesta. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri sono partite dal taglio di mille ulivi risalente al 2011 a titolo di estorsione ai danni  di una cooperativa con scopi benefici gestita anche da religiosi a Stefanaconi, conclusasi con l’arresto dei vertici del clan dei Bonavota. Ma ad incastrare Fortuna, finito in manette il 13 gennaio 2016, sono stati dei  guanti di lattice che comparati con il suo dna hanno consentito ad inquirenti e investigatori di fare quadrato su un omicidio efferato, dove all’epoca dei fatti furono trovati ben 45 bossoli di fucile, pistola e kalashnikov. All’arresto hanno anche contribuito le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Raffaele Moscato che ha raccontato come Fortuna era solito nascondere in tasca i mozziconi di sigaretta perché nessuno potesse risalire al suo dna. L’attività di indagine ha permesso di ricostruire tutta la vicenda che ha portato all’eliminazione di Di Leo, divenuto “pedina” scomoda per il suo clan.


Il movente del delitto. Non sarebbe stato un unico movente a determinare l’omicidio: le frizioni che, in quel determinato periodo storico, erano emerse all’intero del clan Bonavota e che portarono all’eliminazione di diversi suoi componenti e il fatto che Di Leo avrebbe offeso uno dei Bonavota, intrattenendo una relazione sentimentale con la cugina, sarebbero stati solo alcuni dei motivi per i quali Di Leo andava fatto fuori. Alla base del delitto c’erano molto di più, c'erano interessi economici e per gli inquirenti determinante sarebbe stato l'episodio  che si era verificato nella zona industriale di Maierato immediatamente prima dell’omicidio, quando  Di Leo aveva “cacciato” gli operai che, per conto di Domenico Bonavota, dovevano effettuare gli scavi per la realizzazione di un bar nella zona industriale di Maierato, da intestare alla moglie di Nicola Bonavota e Rosa Serratore. La vittima, inoltre, era ritenuta responsabile del collocamento di un ordigno che aveva distrutto una concessionaria di autovetture ubicata allo svincolo autostradale di Sant’Onofrio. E poi c’era il timore che Di Leo  potesse porre in essere azioni nei confronti di altri esponenti del clan, in ragione della sua caratura criminale e della “voglia” che stava maturando di imporsi nell’ambito della consorteria e sul territorio.

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Le dichiarazioni di Moscato. Fortuna è stato incastrato dal Dna, ma le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, che un tempo faceva parte del gruppo dei “Piscopisani”, alleato ai Bonavota, hanno delineato il grave quadro indiziario di colpevolezza a carico di Fortuna. Nel verbale di interrogatorio reso il 15 maggio 2015, Moscato aveva affermato di non conoscere i dettagli dell’omicidio Di Leo,  confermando però il ruolo di killer di Francesco Fortuna, che si deduce da due particolari, importanti per inquirenti e investigatori. Fortuna era considerato particolarmente abile a maneggiare ed utilizzare in azioni di fuoco il kalashnikov, proprio l’arma utilizzata nell’omicidio Di Leo e, inoltre, il presunto killer temeva in modo ossessivo di poter lasciare in giro tracce biologiche, al punto da prelevare e portare con sé, in ogni occasione, sia le “cicche” delle sigarette che fumava che le bottigliette di acqua che beveva.

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